UN PO’ SOLI E UN PO’ CON GLI ALTRI. PER QUESTO SERVE LA CULTURA DELLA MEDIAZIONE

Intervista ad Annamaria D’Ambra, presidente di Kardià, che lancia un seminario sulla mediazione familiare

di Claudia Farallo

“Mi hai rovinato la vita”, “ti lascerò in mutande”, “maledetto il giorno che ti ho incontrato”. Non sono solo frasi da film, queste, che invece riecheggiano nella realtà di molte separazioni fra coniugi, che si scoprono improvvisamente nemici. Per riuscire ad affrontare le sfide delle sempre più numerose famiglie in separazione, l’associazione Kardià punta sui percorsi di mediazione familiare: una serie di incontri, in cui la coppia affianca un percorso emotivo e relazionale alla separazione legale, anche in vista del benessere dei figli. Di questo e della nuova concezione della famiglia moderna e “in movimento”, abbiamo parlato con la presidente, Annamaria D’Ambra, anche in vista del seminario “Sono un po’ solo/a e un po’ con gli altri. Promuovere la cultura della mediazione”che si terrà il 6 novembre a Roma, dalle 10 alle 16, presso l’archivio centrale dell’Udi in Via della Penitenza 37 (info: amdambra@hotmail.it).

Cultura della mediazione. Se ne sente il bisogno?
«Che ce ne sia bisogno è evidente, visto che dalla politica alla vita sociale o personale il bisogno di avere un nemico esterno sembra sia l’ultima forma di comunicazione».

Come si traduce nella nostra vita quotidiana?
«Lo vediamo nella politica, dove negli ultimi anni è emerso bene questo bisogno di avere un nemico, ma anche nella nostra vita personale dove, nel momento in cui le relazioni entrano in crisi o terminano, l’altro diventa improvvisamente altro da noi».

E spesso a farne le spese sono i figli. Come interrompere questo meccanismo?
«Si interrompe in vari modi, dai servizi sociali al sistema giudiziario ai mediatori fino ai terapeuti, che dovrebbero lavorare in sinergia per aiutare la famiglia a passare da una coppia coniugale a una coppia genitoriale. Perché i figli rimangono per sempre».

La mediazione è un bisogno inedito dei nostri tempi, per cui forse non siamo ancora attrezzati?
«Prima la famiglia era legata a una progettualità e non c’era il divorzio. Oggi, oltre ad avere il divorzio, si chiede all’altro non solo la progettualità familiare ma anche un rapporto di amore e affetto. Questo ha portato la possibilità di rigiocarsi emotivamente in un nuovo rapporto. La famiglia, oggi, è in movimento ma i legami rimangono, e sono quelli che fanno la famiglia».

Che ruolo ha l’emancipazione della donna?
«Mette il compagno di fronte a una relazione tra soggetto e soggetto, e non tra soggetto e oggetto. La donna porta una sua complessità e identità ben precisa e chiede la stessa cosa al compagno, che però non ha la stessa capacità di organizzazione giornaliera».

La leggenda vuole che gli uomini non siano in grado di fare due cose contemporaneamente. Le donne che insistono sono eterne illuse o c’è speranza?
«C’è sempre speranza quando si parla di relazioni umane. L’uomo si mette sempre più in gioco emotivamente e spesso chiede aiuto per decodificare quello che investe il mondo emotivo».

Come influisce il divorzio breve nelle relazioni?
«Si velocizza la pratica burocratica, ma c’è il rischio di danneggiare ulteriormente la parte emotiva nei casi di grande conflitto. Il divorzio psichico deve avvenire insieme a quello legale, altrimenti si rischia di arrivare impreparati. Chiaramente, nei casi in cui invece c’è l’accordo, il passaggio si semplifica molto».

Come agisce il mediatore nella pratica?
«Deve lavorare in sinergia con l’avvocato per far avvicinare il più possibile il tempo legale con quello emotivo. Il presupposto è che chi viene lo faccia volontariamente. Si fanno una serie di incontri, di solito non si va oltre i 12».

I minori partecipano?
«Solo se notiamo che il racconto del minore che fanno la mamma o il papà potrebbe non essere rispondente ai fatti, nel qual caso il minore forse è in difficoltà. Allora con lui si fanno dei giochi e dei disegni, attraverso cui i bimbi danno un ritorno rispetto alla situazione di stress che i genitori stessi gli stanno creando. Sono come specchi e, quando capiscono che il mediatore sta dalla loro parte, si sentono liberi di aprirsi».

Anche la scuola può essere un luogo di mediazione?
«Nel seminario presenteremo proprio un lavoro che abbiamo fatto a Bologna, nelle scuole primarie e secondarie. Inizialmente era stato finalizzato all’educazione sentimentale, ma una volta entrati è emerso che nelle relazioni c’era una sorta di comunicazione fra sordi. Allora siamo intervenuti in questo senso, coinvolgendo sia insegnanti che studenti nei laboratori».

Oggi di certo non ci mancano gli strumenti di comunicazione, eppure di comunicazione se ne sente la mancanza.
«Le emozioni hanno i loro tempi. Oggi posso comunicare un fatto o muovermi velocemente, ma la comunicazione che abbiamo dentro ha la stessa velocità di sempre. Non dobbiamo confondere i livelli e darci il tempo per le relazioni, per parlare e anche per annoiarsi».

UN PO’ SOLI E UN PO’ CON GLI ALTRI. PER QUESTO SERVE LA CULTURA DELLA MEDIAZIONE

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