CARO MONDO, TANTI AUGURI DI UN GRADO E MEZZO IN MENO
Il vertice sul clima è stato l'evento più importante di fine anno. Ma bisogna iniziare subito a cambiare modello di sviluppo
30 Dicembre 2015
“L’ultima chiamata” per provare ad arginare la corsa dei cambiamenti climatici. Così è stata definita la “Cop21”, l’importante vertice sul clima che si è chiuso lo scorso 12 dicembre, a Parigi. Ora è tempo di bilanci ed, ovviamente, i pareri sono discordanti. C’è chi ha visto nel risultato dei lavori un documento non vincolante e insufficiente e chi, invece, ritiene che il trattato sia il risultato di un processo lungo e complesso, che ha partorito il miglior compromesso possibile in questo momento. Specialmente perché nel documento si citano due cifre (“ben sotto i 2° C” e “sforzi per limitare la temperatura a 1,5° C”) che pongono limiti precisi per l’aumento della temperatura della Terra. Il processo avviato con la “Cop21” non è però ancora terminato, perché le misure avranno inizio solo trenta giorni dopo che almeno 55 Parti della convenzione, che in totale assommano ad almeno il 55 per cento delle emissioni totali di gas a effetto serra, firmeranno il tutto.
Le responsabilità
Come ci si aspettava, le richieste dei Paesi in via di sviluppo hanno avuto un grande peso negli equilibrismi dell’accordo: del resto, le attuali superpotenze sono tali perché hanno potuto sfruttare a fondo l’epoca d’oro dei combustibili fossili. Quello che è emerso dalla “Cop21”, tra l’altro, è che sarebbe necessario ridefinire il confine scivoloso tra (alcuni) “Paesi in via di sviluppo” e (alcuni) “Paesi industrializzati”: come considerare, infatti, Cina e India, e il Brasile? La Cina, oltre che “Paese in via di sviluppo” per la sua sola convenienza, è anche il primo emettitore al mondo di CO2 (anche se il primo emettitore pro capite sono ancora gli Stati Uniti). I Paesi industrializzati hanno invocato, per i nuovi ricchi, lo stesso trattamento riservato a se stessi.
I finanziamenti
Ci sono quelli destinati ai nuovi, necessari investimenti in energie rinnovabili nei Paesi in via di sviluppo e quelli necessari all’adattamento ai cambiamenti climatici in atto. Per non parlare della questione, ancora più “calda”, dei risarcimenti per i Paesi colpiti da siccità, cicloni o altri fenomeni meteo estremi legati alle conseguenze del riscaldamento globale o all’innalzamento del livello del mare. Mentre su questo ultimo punto i Paesi industrializzati sembrano più “freddi”, l’accordo prevede un flusso di 100 miliardi di dollari annui – eventualmente aumentabili – da destinare ai Paesi più penalizzati perché, con le “buone intenzioni”, non avrebbero a disposizione gli strumenti di crescita che hanno fatto la grandezza dei Paesi ricchi. Il problema risiede nel fatto che i 100 miliardi di dollari promessi (che secondo alcuni economisti della London school of economics non sono sufficienti) sono citati nel preambolo e non nel trattato ufficiale stesso. La somma è quindi meno vincolante e non è certo che tutti i Paesi sviluppati riescano o vogliano finanziare il fondo.
Un grado e mezzo
Il vertice di Parigi considera la soglia di 1,5 °C, ma senza prendere una posizione precisa: l’accordo prevede di mantenere l’aumento della temperatura “ben al di sotto dei 2 °C” e lascia le porte aperte ai +1,5 °C, ma “come auspicio, non come limite vincolante”. Per rientrare nei limiti occorre raggiungere le “emissioni zero globali” entro il 2050. Si parla di greenhouse gas neutralità per la seconda metà del secolo, obiettivo che lascia aperte le porte a un aumento più contenuto della temperatura, ma che non lo assicura.
L’espressione greenhouse gas neutralità si presta infatti a molte interpretazioni, così come la seguente, presente nell’articolo 4: «balance between anthropogenic emissions by sources and removals by sinks of greenhouse gases in the second half of this century» (equilibrio tra le emissioni antropogeniche e la rimozione da parte dei serbatoi dei gas a effetto serra nella seconda parte del secolo). Le due formulazioni non spiegano però come raggiungere l’obiettivo: potrebbe essere con la diminuzione delle emissioni di gas a effetto serra, o con l’aumento dell’assorbimento da parte dei sink. Si lascia però in questo modo la strada aperta anche alla geoingegneria e alla cattura e accumulo del carbonio (CCS), tecnologie poco sperimentate e secondo alcuni addirittura pericolose. Per altri, però, il documento è un passo in avanti rispetto al vertice di Copenhagen del 2009, anche se in quel testo comparivano limitazioni alle emissioni del settore nautico e dell’aviazione che nell’accordo di Parigi non compaiono.
L’orizzonte temporale
Quali saranno gli impegni concreti per il “dopo 2030”? Non è stato dato un orizzonte temporale alla definizione del “picco di emissioni”, ossia la soglia massima di emissioni che un Paese può raggiungere. Si fa riferimento solo alla neutralità delle emissioni da raggiungere nella seconda metà del secolo, ma questa espressione non equivale a “emissioni zero”: significa che i gas serra emessi potranno essere compensati in altro modo. Per le Ong, sarebbe stato meglio utilizzare il termine “decarbonizzazione” per indicare un percorso che porti alla sostituzione dei combustibili fossili.
Autocertificazione
Le misure previste dal vertice di Parigi entreranno in vigore dal 2020 e l’appuntamento successivo per un primo bilancio è fissato per il 2023: troppo tardi, secondo molti addetti ai lavori. Dopo quella data è prevista una revisione del trattato ogni cinque anni. Ed è lasciato ai singoli Stati il compito di certificare i propri progressi e il rispetto dei propri impegni (Indc).
La giustizia climatica
Curioso dover usare la parola “infine” anziché “innanzi tutto” per ciò che riguarda il benessere dell’umanità (oltre che di tutti i viventi sulla Terra, dai microbi ai capodogli). I cambiamenti climatici sono anche una questione di diritti umani: la casa, il lavoro, la salute, l’acqua, la sicurezza alimentare… La pressione dei media, delle Ong e delle associazioni ambientaliste hanno infine evitato che i “diritti umani” o parti della questione fossero completamente evitate, tuttavia sarebbe ingenuo ritenere che la più ampia questione del tema “cambiamento climatico” non lascerà sul campo un buon numero di vittime.
Non fermare lo sviluppo, ma cambiarlo
«L’accordo di Parigi», per Luca Iacoboni, responsabile campagna energia e clima di Greenpeace – rappresenta un passo in avanti. Non si tratta di un successo, poiché si poteva e si doveva fare di più, ma si tratta di un punto di inizio e, per certi versi, di una svolta. Per la prima volta nella storia quasi 200 Paesi si sono seduti allo stesso tavolo e hanno condiviso i contenuti di un testo ed è importante che questo sia avvenuto su un tema che riguarda tutti, quale il clima. È altrettanto chiaro che il testo, essendo il frutto di negoziati di diversi interessi, presenta aspetti controversi. È positivo l’obiettivo di mantenere ben al di sotto dei 2 gradi centigradi l’aumento della temperatura; così come è positivo il fatto che venga citato l’obiettivo del limite dei 2,5 gradi centigradi».
«È estremamente negativo», prosegue l’esponente di Greenpeace, «che gli impegni presentati dai vari Paesi, se rispettati, ci porterebbero, comunque, ad un aumento di temperatura di almeno 2,7 gradi, secondo le stime più prudenti. Questo significa che con una mano stiamo scrivendo un obiettivo da raggiungere e con l’altra stiamo disegnando un percorso che, evidentemente, non ci porterà a raggiungere quell’obiettivo. Inoltre, gli impegni nazionali di riduzione delle emissioni non sono vincolanti e questo significa che, fondamentalmente, sono poco più che dei semplici suggerimenti. Un simile discorso si può fare per l’aspetto economico-finanziario, dove gli impegni di contributo al fondo non sono vincolanti».
«Di positivo», evidenzia Iacoponi, «ci sono anche altri aspetti. L’industria dei combustibili fossili (carbone, petrolio e gas) viene messa dalla parte sbagliata della storia; ovvero questi ultimi vengono chiaramente indicati come i colpevoli dei cambiamenti del clima. Nell’accordo di Parigi c’è l’obiettivo di raggiungere emissioni zero nella seconda metà del secolo. Questo significa che, per quanto questo obiettivo sia vago dal punto di vista dell’orizzonte temporale, se si vuole raggiungere tale obiettivo si vogliono e si devono abbandonare i combustibili fossili, più o meno entro il 2050. A cominciare dal carbone, che è il più inquinante, passando poi per il petrolio e per il gas. Si tratta di un punto di inizio, che dà forti segnali anche all’economia. Dopo l’accordo di Parigi è diventato molto più rischioso investire in combustibili fossili, mentre si aprono nuove possibilità di investimento o, comunque, si attivano ulteriori investimenti nel settore delle energie rinnovabili e dell’efficienza energetica, che in questi anni hanno sempre fatto chiudere le aziende con un saldo positivo, creando posti di lavoro. È, ormai, sempre più evidente che energie rinnovabili ed efficienza energetica rappresentano il nostro futuro».
«Auspichiamo», incalza l’esponente di Greenpeace, «che continui questa grande mobilitazione della società civile. Noi pensavamo prima di Parigi, e ne siamo ancor più convinti oggi, che la sfida climatica non si sarebbe vinta in Francia, che non l’avrebbe vinta o persa solo la politica, ma che la nostra forza risieda nella società civile e nella mobilitazione dei cittadini. Il fatto che alla vigilia della Cop21 si siano mobilitate 785mila persone in tutto il mondo, senza contare tutte quelle che non sono potute scendere in piazza per motivi di sicurezza, ci fa capire che stiamo parlando di numeri molto grandi e che un tema come il clima, su cui storicamente è stato difficile mobilitarsi, è salito in alto nell’agenda politica e nell’agenda economica. Ne è prova anche il fatto che sono molte le aziende che si stanno muovendo nella direzione delle energie rinnovabili e dell’efficienza energetica. Ma, soprattutto, la questione dei cambiamenti climatici sale nell’attenzione dei cittadini. Le persone sono sempre più consapevoli del fatto che i cambiamenti climatici hanno a che fare con l’aria inquinata che causa malattie e morti, hanno a che fare con le siccità che distruggono l’agricoltura, con le alluvioni, eccetera. Stiamo iniziando a collegare questi concetti e a capire cosa sono i cambiamenti climatici, a capire chi sono i veri colpevoli, cioè carbone, petrolio e gas, e quali sono le soluzioni, cioè energie rinnovabili ed efficienza energetica».
«Il nostro auspicio», conclude Iacoponi – è che nel 2050 ci potremmo girare e vedere che siamo in un mondo 100% rinnovabile e, se così sarà, la sfida del clima l’avremmo vinta grazie ai cittadini e alle persone che avranno spinto la politica, le aziende, l’economia e l’industria verso un mondo migliore. Fermare i cambiamenti climatici, cambiare modello energetico e passare alle rinnovabili non significa fermare lo sviluppo, ma cambiare lo sviluppo. Significa renderlo migliore allo scopo di permettere a tutti di accedere all’energia. Vuol dire concedere una vita migliore e più salubre. Significa più pace, meno guerre e meno migrazioni legate ai cambiamenti climatici. Non, quindi, meno sviluppo, ma uno sviluppo diverso e migliore».