LE RICHIESTE DI LIBERA PER LE VITTIME DELLA MAFIA E I LORO FAMILIARI
Dimenticate le vittime, lasciati soli i famigliari. Una manifestazione a Montecitorio per presentare il Manifesto con le richieste per tutelarli
19 Febbraio 2020
Domenico, Pasquale, Gianni, Domenico, Gabriele, Mario e altri mille uomini e donne, vittime della mafia, sono stati ammazzati due volte: il giorno in cui è stato premuto il grilletto e quando lo Stato li ha dimenticati definitivamente. Non tutti hanno avuto la visibilità di una pagina di giornale o di un servizio al Tg. Chi oggi, a distanza di anni, racconta la loro storia, porta sul viso i segni della sofferenza. Basta guardarli negli occhi i genitori, i fratelli e gli amici delle vittime di mafia: trasmettono empatia e voglia di non arrendersi. Qualcuno cerca ancora il corpo del familiare ucciso, per poterlo piangere al cimitero; altri vogliono un colpevole affinché sia fatta giustizia, o almeno una legge che li tuteli maggiormente. «Siamo qui per non essere dimenticati», dicono i 200 che si sono radunati martedì in Piazza di Montecitorio, a Roma. Hanno organizzato una manifestazione durata 1 ora e mezza, senza mai alzare la voce. La loro protesta è stata dignitosa e silenziosa.
Vicini alle vittime delle mafia
Li ha radunati Libera, l’associazione che promuove molteplici attività al fine di tutelare le persone vittime della criminalità organizzata, a partire dal diritto al ricordo, curandone la ricostruzione della storia e del contesto in cui hanno vissuto. Lo chiamano “diritto al nome” ed è un supporto concreto – anche psicologico – nei confronti di chi ogni giorno spera sia fatta luce su casi irrisolti e drammatici.
Libera ha presentato al Parlamento un manifesto per chiedere l’equiparazione delle vittime delle mafie a quelle del terrorismo, che in materia di prescrizioni e decadenze sia fatta un’attenta e urgente riflessione per evitare interpretazioni restrittive, che l’attenzione per chi soffre venga posta al centro della riflessione del legislatore, che sia previsto un riordino delle norme a favore delle vittime e che sia riconosciuto lo status di “vittime di mafia” anche alle persone scomparse prima del gennaio 1961. Istanze portate all’attenzione del presidente della Camera, Roberto Fico, che ha ricevuto una delegazione di Libera capitanata da Don Luigi Ciotti, sacerdote da sempre impegnato nella lotta contro le mafie. Dal dialogo è nata la promessa di istituire presto un tavolo di lavoro e di confronto per inserire questi temi nell’agenda politica.
I nomi da non dimenticare
«In questo gran parlare di lotta alle mafie e alla corruzione ci si dimentica che queste persone stanno soffrendo,» ha spiegato Luigi Ciotti. «L’85% di loro non conosce la verità sui delitti che gli hanno stravolto le vite o ne conosce solo una parte». Cosa può fare, dunque, lo Stato? «Deve sfidare le mafie» è il pensiero di Nicola Morra, presidente della Commissione parlamentare antimafia, sceso in piazza per conoscere di persona i manifestanti. «Lo Stato deve occuparsi di più dei territori. Sui media si parla più di Sanremo o di programmi di cucina rispetto ad argomenti legati alla criminalità organizzata. Questo dimostra che c’è un condizionamento, probabilmente voluto, da parte del potere nei confronti della società civile. Qualcuno vuole che i cittadini siano sempre distratti».
Marino Cannata non ha mai dimenticato quel tragico 16 aprile 1972 a Polistena, nella Piana di Gioia Tauro. Ha visto esplodere una bomba a pochi passi da suo padre Domenico, “colpevole” secondo la ‘ndrangheta di non aver pagato un pizzo da 250 milioni di lire. «Ricordo un boato enorme. Il corpo di mio papà è stato dilaniato davanti ai miei occhi. Non hanno mai trovato il colpevole e siamo stati emarginati. Grazie a Libera non siamo soli. Tutti conoscono la storia di Dalla Chiesa, di Falcone e Borsellino, ma con me porto sempre un elenco di 976 nomi dimenticati da tutti. Per l’Italia sono morti di Serie B».
Tra questi c’è quello di Pasquale Miele, che aveva 28 anni quando è stato ammazzato a Grumo Nevano, in provincia di Napoli, perché insieme alla sua famiglia si è ribellato al solito ricatto. «Sono passati 30 anni», ha dichiarato suo fratello Giuseppe. «Avevamo una fabbrica di abbigliamento e non ci siamo piegati alla Camorra che voleva dei soldi. Sono venuti per fare un’azione intimidatoria, ma un proiettile ha colpito mio fratello. Non sappiamo ancora chi l’ha sparato».
Gianni Romano è stato assassinato 11 anni fa a Vallo di Lauro, in provincia di Avellino, quando ne aveva 39. Per i genitori è una ferita impossibile da rimarginare. Entrambi vedono, nel sorriso di ogni giovane, la voglia di vivere di un figlio perso troppo presto. Piangono mentre raccontano l’accaduto. Il loro dolore è straziante: «Dormiamo a fatica, prendiamo dei farmaci», ci dice Gaspare, il padre. «È dura andare avanti. L’ha ammazzato un vicino di casa che ci minacciava di morte da mesi. Secondo lui il nostro muro sconfinava nella sua proprietà. Per non litigare gli siamo andati incontro, siamo gente perbene, noi. Poi ha fatto richieste sempre più assurde e l’abbiamo denunciato, ma le forze dell’ordine non hanno fatto nulla per proteggerci».
Domenico Gabriele, invece, è un bambino vittima della mafia. «Era il 25 giugno 2009», ricorda Giovanni, il papà. «L’ho portato a giocare in una struttura sportiva. Quel giorno i mafiosi volevano uccidere una persona e hanno cominciato a sparare all’impazzata. Il mio Dodò aveva 11 anni ed è stato 85 giorni in coma, prima di spegnersi. Pensi un po’, nella tragedia ci dicono che siamo stati fortunati. Noi almeno sappiamo la verità e abbiamo avuto giustizia…».
Chissà se ne avrà mai la signora Anna, la mamma di Gabriele De Tursi. Siamo a Strongoli, in provincia di Crotone: suo figlio è uscito di casa il pomeriggio del 5 giugno 2013 e non è mai più tornato. «Ci hanno detto che era rimasto coinvolto in un incidente. Nessuno ha visto, nessuno sapeva… e dopo tante ricerche hanno iniziato a parlare di “Lupara bianca” (locuzione per indicare un omicidio di mafia che prevede l’occultamento del corpo ndr). Il suo corpo non è stato trovato, vorrei almeno piangerlo al cimitero. Non so nemmeno dove portare un fiore».
Quasi tutti i manifestanti di Montecitorio hanno portato le foto dei cari scomparsi, qualcuno anche dei cartelli. È una carovana della solidarietà e del ricordo che proviene dal nord, dal centro e dal sud. Vogliono piangere insieme, stringersi nel dolore e sperare che qualcuno li ascolti.
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