“VIVERE ALLA GRANDE”. CON L’AZZARDO SOLO 5 SU 30 MILIONI CE LA FANNO
È questa la probabilità di vincere a un gratta & vinci. “Vivere alla grande” è un film che racconta le implicazioni del gioco d’azzardo legalizzato.
06 Ottobre 2015
Cinque su trenta milioni. È questa la possibilità di vincere il primo premio in un Gratta & Vinci che si chiama “Vivere alla grande”. Promette 500.000 euro subito, più 10.000 euro per vent’anni, più 100.000 euro di bonus finale. Vincere un premio così è qualcosa che farebbe gola a tutti, soprattutto in un paese che sembra non offrire grandi prospettive. Eppure, che a vincere siano in così pochi, nessuno lo dice. Per questo Fabio Leli ha deciso di girare “Vivere alla grande”, documentario che vuole informare, dire cose che nessuno finora ha detto, raccontare le inquietanti storie di chi è caduto nel vizio del gioco d’azzardo legalizzato. “Vivere alla grande”, presentato al Festival di Locarno, racconta la storia di un paese sotto attacco, da parte di un invasore potente e invisibile, per di più alleato del nostro governo. Qualcuno che ha succhiato agli italiani qualcosa come 100 miliardi di euro, una tassa invisibile e volontaria. Il gioco è entrato ormai nel nostro costume, nelle nostre abitudini. Fabio Leli ha deciso di occuparsene definitivamente quando, la vigilia di Natale, ha visto una signora regalare una busta con 5 gratta e vinci – da grattare subito insieme secondo un rituale ben preciso – a una ragazzina di 16 anni.
Nonostante sia ancora senza una distribuzione ufficiale, “Vivere alla grande” ha iniziato il suo giro d’Italia per mobilitare le nostre coscienze. Potrete vederlo il 14 ottobre a Trento, l’11 novembre a Senigallia, il 12 novembre a Fano, e a gennaio a Palermo. Tantissime richieste di proiezioni, sale private, comuni.
Come si è avvicinato al problema del gioco d’azzardo?
«Il primo stimolo è arrivato dalle passeggiate per la strada. Vedevo gente ad ogni angolo delle strade passare ore e ore davanti alle slot o ai gratta e vinci. La cosa mi ha incuriosito dal punto di vista antropologico. Ho iniziato a fare un po’ di ricerche sul tema: più ne facevo più schifezze scoprivo».
Per definire la dipendenza dal gioco i media usano un termine, “ludopatia”, che non le piace. Perché?
«È un termine mediatico, che non vuole dire niente. Vorrebbe dire “malattia dalle cose ludiche”, e il gioco d’azzardo non ha niente di ludico. C’è invece un termine specifico che è “gap”, gioco d’azzardo patologico, che rappresenta meglio questa malattia».
I media sono responsabili dell’aumento del gioco d’azzardo? Qual è stato l’atteggiamento con cui hanno affrontato il problema?
«I media dovrebbero analizzare il tema in modo critico e non possono farlo perché guadagnano dai contratti pubblicitari. Magari c’è un giornalista che vuole affrontare il tema in modo più critico di come è stato fatto in questi anni, cioè molto superficialmente, ma non può farlo. I media hanno molte colpe, la più grande è di essersi piegati ai soldi. Molte cose non vengono dette. Per questo chi ha visto il film si è spaventato».
Il titolo del film prende spunto dal nome di un Gratta & Vinci. Un gioco che sembra innocuo e non viene mai accostato al gioco d’azzardo…
«Il gratta & vinci oggi è la normalità, è come il caffè o un bicchiere d’acqua. È così perché cittadini hanno subito questo inculcamento mediatico. Ora è normale, ma non era così: una volta non esistevano i gratta & vinci, c’era la Lotteria Italia una volta all’anno. I Gratta & Vinci sono molto pericolosi: sono molto pratici, sono molto veloci, non è come il vecchio lotto, non devi aspettare. Non vengono visti come un pericolo, ma non è così: sono molto aggressivi, si avvicinano molto alla slot machine. Hanno un aspetto maniacale. E poi la probabilità di vincere è bassissima. Nel film ci sono dei matematici che ci parlano di probabilità di vittoria nelle slot machine e nei Gratta & Vinci. I numeri sono sconfortanti: 5 su 30 milioni è molto sproporzionata come percentuale».
La crisi è stata una spinta in più per lanciare gli italiani verso il gioco?
«Questo è l’aspetto più inquietante, l’affidarsi a queste cose per risolvere i problemi. Hanno iniziato a vendere speranza. E in periodi di crisi vendere speranza rende molto: quando all’orizzonte non c’è nulla, chi vende speranza incassa tanti soldi. La spesa nel gioco in Italia è cresciuta proporzionalmente alla crisi: si parla di 100 miliardi l’anno. Per fare un paragone, noi spendiamo 130 miliardi all’anno per mangiare…».
Ha conosciuto associazioni che si occupano del problema? In che modo lavorano?
«Ce ne sono tantissime. Slotmob organizza flash mob nei bar contro il gioco d’azzardo. Ci sono la Fondazione Antiusura, la Casa del Giovane di Pavia, che è il posto in Italia dove ci sono più slot machine. Sono associazioni che aiutano chi si ammala, dal punto di vista economico e sociale. Più che altro aiutano le famiglie, perché è vero che chi si ammala si rovina, ma tutto il nucleo familiare ne risente. Il più delle volte è il capofamiglia a cadere in questo vortice».
Che storie ha raccontato nel film?
«Il film si basa su due storie di vita. Quella di Francesco, giocatore che ha perso tutto, famiglia lavoro e soldi, e ora ha reagito. È la storia positiva: nonostante abbia perso tutto è riuscito a uscirne, anche se la famiglia, il lavoro e i soldi sono andati. L’altra storia è quella di un ragazzo di Senigallia che per liberarsi dal cappio dalla slot machine ha deciso di usare un cappio vero, e di farla finita».
Come si combatte questo nemico invisibile e potentissimo. Ci vorrebbe una volontà politica?
«Io credo che la volontà politica sia impossibile da ottenere. Per me si combatte dal basso, dal pubblico. È molto difficile perché ormai, dopo vent’anni di pubblicità, di propensione mentale a questa cosa è difficile scardinare le teste. È come una dittatura. Le dittature sono difficili da scardinare. Ci vuole tempo e che chi è sottomesso, come il popolo italiano, si svegli. Al momento è nera».