C’È UN ALTRUISMO MORDI E FUGGI CHE VA VALORIZZATO
Occorre costruire percorsi di incontro con il volontariato organizzato, forme flessibili e graduali di impegno. Intervista ad Ambrosini
11 Novembre 2016
Questa intervista a Maurizio Ambrosini è tratta da VDossier n. 2/2016, interamente dedicato al volontariato legato ai grandi eventi od occasionale.
C’è una sorta di allergia reciproca tra il volontariato dei grandi eventi e quello tradizionale. Infatti il volontario occasionale ricerca gratificazione per sé mentre si impegna per gli altri, pensa che il cento per cento del tempo messo a disposizione sia per l’utente finale, e non per l’organizzazione, ed è disposto a farsi coinvolgere solo con una flessibilità compatibile con altri ambiti di vita.
Al contrario, il volontario tradizionale è inserito in una struttura che ha una vita associativa fatta di procedure, burocrazia, momenti di confronto e, come tale, ha bisogno di persone affidabili che si impegnino nel lungo periodo. E l’associazione è importante non solo per quello che fa, «ma per le posizioni che assume e i valori che mette in circolazione», per il suo ruolo culturale e di advocacy.
Eppure, il volontariato dei grandi eventi ed occasionale riesce a coinvolgere una fetta di quelle persone che altrimenti starebbe a «guardare la televisione». E, d’altro canto, rimane la difficoltà delle organizzazioni nel reclutare nuovi adepti.
Il focus sta nella transizione, ma per quali vie? E con quale ruolo per le associazioni del volontariato tradizionale? Ne parliamo con Maurizio Ambrosini, docente di Sociologia all’Università degli Studi di Milano.
Qual è il ruolo delle organizzazioni nel raccogliere l’eredità di questa forma di partecipazione?
«Sono convito che il volontariato dei grandi eventi possa essere un invito, una sorta di strada di ingresso verso forme di volontariato più strutturato. È molto importante, in questo senso, rompere il diaframma tra chi partecipa e chi non partecipa. Tradizionalmente, nella maggior parte dei casi chi partecipa è un militante che si mette al servizio intensamente, spesso anche per più di un’associazione, mentre la maggioranza guarda la televisione.
Il volontariato dei grandi eventi è un’esperienza interessante anche perché convoglia verso forme parziali, diciamo limitate nel tempo, di partecipazione una componente di questa maggioranza poco assuefatta a forme di partecipazione e di impegno sociale. Certo, l’esperienza si può concludere con la fine dell’evento. Oppure, come nella nostra ricerca, i partecipanti sono disposti a farsi coinvolgere di nuovo e c’è anche una fetta di persone che ci prende gusto.
Si apre così una spazio di disponibilità verso forme di impegno più strutturato e stabile. Certamente bisogna riuscire a cambiare l’ottica di utilizzo dei volontari: spesso il volontario viene visto come una risorsa per l’organizzazione e la missione dell’organizzazione stessa, gli ideali che propone vengono ritenuti autoevidenti. Invece mi sembra che il volontariato dei grandi eventi insegni l’importanza di forme coinvolgenti, di esperienze gratificanti, di contesti accoglienti, di esperienze anche di partecipazione magari puntuali, limitate, di approcci graduali che chiedano ai partecipanti forme di impegno tutto sommato accessibili, compatibili con altri interessi e altri ambiti esistenziali».
Quali sono le esigenze e gli aspetti di criticità per i volontari, da un lato, e per le associazioni dall’altro? Come farli collimare?
«I punti di partenza sono, almeno in parte, distanti. Le organizzazioni hanno bisogno di volontari fidelizzati, affidabili, costanti nel loro impegno. Mentre coloro che offrono la propria disponibilità in occasione dei grandi eventi si dichiarano spesso allergici a forme di coinvolgimento troppo totalizzanti, impegnative e continuative. Sono più nella logica del mordi e fuggi, della flessibilità e della compatibilità con altri interessi e ambiti di vita. Bisogna costruire punti di incontro: forme di impegno flessibili e puntuali, richieste di coinvolgimento non troppo onerose, in un clima – lo ribadisco – di accoglienza, attenzione alle persone, valorizzazione delle loro capacità e risorse.
Credo, infatti, che il volontario di oggi – e in modo particolare il volontario dei grandi eventi – esprima una ricerca di gratificazione per sé mentre si impegna per gli altri. Questi due valori – i ritorni per sé e i vantaggi per la società – non sono mutualmente esclusivi. Bisogna semmai lavorare perché diventino il più possibile complementari».
Volontariato tradizionale e volontariato per eventi sono quindi, per certi versi, in antitesi. Il primo ha una certa diffidenza verso il secondo, che, a sua volta, tende a saltarne l’intermediazione. Il punto è la transizione. Come fare? Come le associazioni dovrebbero leggere questa partecipazione e rileggersi al loro interno?
«C’è una specie di allergia reciproca, più esplicita nel caso dei volontari, più nascosta per le organizzazioni. Sono due configurazioni motivazionali piuttosto antitetiche: i volontari occasionali e dei grandi eventi hanno, forse, dei pregiudizi nei confronti delle organizzazioni, con il loro carico di burocrazia, come la definirebbero loro. Cioè di ritmi lenti, procedure interne, momenti assembleari di discussione.
Il volontario dei grandi eventi vuole che, se mette a disposizione cento ore del suo tempo, queste siano spese al servizio della missione, dei beneficiari finali e non che venti o trenta, magari cinquanta, se ne vadano per adempimenti interni all’organizzazione. Mentre queste ultime, avendo una vita democratica e degli organi interni, hanno bisogno anche della disponibilità a farsi carico di compiti organizzativi e di funzionamento. Personalmente credo che la risposta al dilemma non sia semplice.
Un aspetto importante, in questo senso, è la gradualità, il cominciare con poco, il saper valorizzare ciò che i volontari sono in grado di dare e magari configurare delle forme di volontariato, a loro volta, puntuali e specifiche. Penso alle associazioni che lottano contro le malattie e hanno le giornate di raccolta fondi; a quelle che si occupano di ambiente e organizzano le giornate “Puliamo il mondo”, oppure al Fai, che organizza visite ai palazzi o alle bellezze artistiche nascoste. Ci sono già delle forme di volontariato in cui è possibile impegnarsi una o due volte l’anno, cinque mettendoci insieme la preparazione.
Credo che esperienze di questo genere siano più immediatamente congeniali alla forma mentis del volontario dei grandi eventi. Gradualità. Poi flessibilità: pensare a modalità per cui le persone, nell’arco dell’anno o della propria organizzazione del tempo, possano alternare periodi in cui riescono a dare di più ad altri in cui danno meno. Riuscire a configurare in modo più flessibile l’impegno richiesto è un altro aiuto.
Ancora, credo che ci sia da fare i conti con una segmentazione della popolazione dei volontari. Siamo già andati – e ora sempre di più – nella direzione in cui ci sarà forse una minoranza più disponibile a farsi carico anche di compiti organizzativi e associativi e una maggioranza di volontari disposti soltanto a fornire il loro lavoro per i beneficiari finali. Certo, bisogna lavorare per far passare i secondi nella categoria dei primi, o per avere comunque un numero sufficiente di persone di valore che siano disposte a spendersi per far vivere le organizzazioni, anche perché sappiamo quanto le associazioni siano importanti dal punto di vista della vita democratica, come organismi capaci di dar voce agli interessi deboli – basti pensare a malati, disabili, migranti, rifugiati–.
Le associazioni non sono importanti soltanto per quello che fanno, ma anche per quello che dicono, per le posizioni che assumono e i valori che mettono in circolazione. Quindi avremo sempre più bisogno di volontari preparati ad assumere anche compiti di tipo politico del volontariato – e lo dico in senso positivo – ma dobbiamo fare i conti anche con il fatto che la maggioranza forse non è a questo livello. Pur non rassegnandosi a questo, e lavorando perché cresca la partecipazione democratica anche all’interno delle associazioni, ritengo realistico pensare che ci possano essere forme e modalità diverse di partecipazione associativa».
Il volontariato one shot può quindi affiancare quello tradizionale. Tuttavia – come conferma lei stesso – c’è il rischio di perdere l’aspetto culturale e di advocacy, che è proprio del volontariato organizzato, tutto quanto c’è oltre il “fare” in senso stretto.
«Sono molto d’accordo. Non penso che tutto il volontariato debba trasformarsi in volontariato dei grandi eventi. Non c’è dubbio che le organizzazioni siano uno degli apporti più importanti alla vita democratica della nostra società. Allo stesso tempo dobbiamo riconoscere questo fatto: mentre il volontariato tradizionale fa fatica a riprodursi, a trovare nuovi adepti, quello dei grandi eventi ha successo. Abbiamo due traiettorie divergenti, persino opposte: il nostro problema è riuscire a far transitare le persone dall’una all’altra categoria o, comunque, valorizzare, per quanto possibile, gli apporti del volontariato più informale e occasionale come contributo complementare, da non disprezzare, da non disperdere rispetto al volontariato più strutturato. Pur sapendo che ha dei limiti.
Si tratta certo di una fatica, si tratta di far parlare mondi che non comunicano affatto in modo scontato, ma è una fatica necessaria e che può trovare spazi di successo».
Esperienze pregresse come Expo propongono il tema di un associazionismo dei grandi eventi, specializzato? Qual è la sua opinione?
«Ci sono esperienze straniere che vanno in quella direzione – come le associazioni nate tra i volontari dell’Olimpiade di Londra – che si mobilitano in occasioni analoghe. Io penso, ad esempio, a momenti come il Capodanno nelle città: reti associative che mettono a disposizione volontari per queste occasioni, due o tre volte l’anno, quando ci siano eventi di questa natura, mi sembrano un apporto significativo al funzionamento delle città, alla loro vivibilità e attrattività. Il punto debole è di nuovo la scarsa disponibilità dei volontari – almeno quelli di Expo che abbiamo incontrato – a pensarsi come protagonisti impegnati in un lavorio organizzativo come quello necessario a far funzionare una realtà. Allora è più realistico pensare a valorizzare un’esperienza come quella dei Centri di servizio per il volontariato, così come è avvenuto con Expo: certo, ci vuole un terminale organizzativo per raccogliere le candidature e metterle in comunicazione con chi organizza gli eventi, ma non è detto che debba essere un’associazione, se questo si rivela difficile. Può essere un’istituzione strutturata come nel caso dei Csv».
Quale, perciò, il ruolo dei Centri di Servizio?
«Credo che abbiamo messo a fuoco un loro ruolo possibile sul territorio. In occasione di Expo molti cittadini hanno appreso per la prima volta dell’esistenza di un Centro di servizio per il volontariato nella loro città.
Questo è un altro patrimonio da non disperdere, senza contare che, a mio parere, le istituzioni pubbliche, in alcune occasioni, avranno sempre più bisogno della collaborazione a titolo volontario dei cittadini. In fondo anche le restrizioni della spesa pubblica portano a valorizzare l’impiego del volontariato. C’è bisogno di qualcuno che organizzi questo volontariato e lo metta in relazione con i fabbisogni che vengono dal sistema dei governi urbani. Credo che il Csv possa svolgere un ruolo molto interessante di collegamento e intermediazione tra domanda pubblica e offerta di collaborazione volontaria da parte dei cittadini».
Come leggere il tema dell’ibridazione nell’ambito di queste riflessioni?
«Credo che l’approfondimento del volontariato dei grandi eventi ci aiuti a capire la crescente pluralizzazione dei significati e delle pratiche del non profit. “Ibridazione” vuol dire, allora, mettere a fuoco forme di volontariato meno interessate a costruire ed espandere una propria identità e più disponibili a dare il proprio apporto nei confronti di altri soggetti organizzativi e dei governi della città, ad esempio. Scopriamo che fare volontariato non significa più necessariamente far parte di un’associazione. Mentre nel caso del volontariato più strutturato e tradizionale i due termini erano sinonimi, qui il “fare volontariato” si dissocia dal “far parte di”, dall’adesione ad un’organizzazione: l’aspetto interessante di questa forma di volontariato più fluido e meno legato alle appartenenze è che diventa anche più facilmente ibridabile, disponibile per le esigenze di altri soggetti che hanno missioni di rilevanza pubblica, come nel caso, appunto, delle istituzioni del territorio e dei governi delle città».