VOLONTARIATO DI COMPETENZA: FA BENE A TERZO SETTORE, LAVORATORI, AZIENDE
Il volontariato di competenza riguarda il 5% delle aziende con almeno 50 dipendenti e 4 su 10 lo considerano preponderante. Lo spiega una ricerca di Fondazione Terzjus e Unioncamere. Caltabiano: «Occorre allineare le esigenze di imprese ed ETS e un’attenta coprogettazione, con l’intermediazione dei CSV»
19 Febbraio 2024
Con volontariato di competenza intendiamo tutte quelle forme di impegno solidaristico attraverso le quali i dipendenti delle aziende mettono le proprie capacità professionali al servizio delle comunità, principalmente durante l’orario di lavoro, quindi con l’autorizzazione del datore di lavoro. Da due anni un programma di ricerca di Fondazione Terzjus cerca di capire le implicazioni di questa pratica, i cui risultati sono nel volume Riconoscere il volontariato di competenza. Grazie al contributo di Unioncamere, che ha inserito alcuni quesiti sul tema nella rilevazione del Sistema informativo Excelsior, si è riusciti a misurare in modo piuttosto preciso l’impatto del volontariato aziendale. I dati ci dicono che questa forma di volontariato è ancora abbastanza limitata: riguarda infatti il 5% delle aziende con almeno 50 dipendenti. Il volontariato di competenza è, però, una componente rilevante di questo 5%: per circa 4 imprese su 10 (il 39,4%) il volontariato di competenza è la forma preponderante. «Nella letteratura anglosassone esiste da anni il concetto di volontariato aziendale, il corporate volunteering», spiega Cristiano Caltabiano, curatore della ricerca. «Le aziende sviluppano programmi di natura sociale, una serie di pratiche di volontariato aziendale che vanno dal community day allo stesso volontariato di competenza, che, più continuativo nel tempo, prevede una progettazione da parte dei tre soggetti coinvolti, il dipendente che fa volontariato, l’azienda e l’ente di Terzo settore che usufruisce della competenza. In molti casi c’è un quarto attore: per allineare le esigenze delle imprese e degli ETS, ci vuole una sezione di intermediazione, quella dei Centri di Servizio per il Volontariato. Mettere insieme questi soggetti non è automatico, il mondo dell’impresa e del Terzo Settore hanno linguaggi, codici e culture profondamente diverse tra loro».
Il volontariato di competenza fa bene a tutti
«Non è che il lavoratore esporti la sua competenza e non riceva nulla», ci tiene a precisare Caltabiano. «È un processo circolare. Si mescolano due mondi, quello della professionalità e quello del sociale». I datori di lavoro riescono a dare ai propri dipendenti l’opportunità, in orario di lavoro, di svolgere attività di solidarietà, rafforzando l’adesione del dipendente e all’azienda e di questa al paradigma delle sostenibilità. Il volontariato di competenza, così, porta benefici ai dipendenti, ai datori di lavoro e agli ETS che ne beneficiano. I dipendenti hanno una maggiore motivazione nel raggiungimento degli obiettivi personali e risultati migliori, rafforzando l’appartenenza all’azienda. Le aziende, dal canto loro, diventano socialmente responsabili. «Si comincia in orari di lavoro, ma spesso si sconfina nel fine settimana», commenta il curatore della ricerca. «È una pratica win win: il lavoratore può, da un lato, mettere a disposizione della comunità le competenze che ha maturato e, dall’altro, fare esperienze che modificano il suo modo di vedere le cose, acquisendo competenze soft legate alla relazionalità, come l’empatia e la capacità di ascolto».
Le skill determinanti: comunicazione, fundraising, tecnologia, formazione
Il volontariato di competenza è importante anche perché le competenze dei dipendenti-volontari sono tenute in grande considerazione dagli Enti di Terzo Settore. Tra le skill professionali considerate determinanti ci sono il marketing e la comunicazione, quelle in ambito di fundraising e dell’organizzazione di eventi, ma anche digitale e tecnologico, oltre alla progettazione di corsi di formazione e aggiornamento. Ci sono vari modi di fare volontariato di competenza, che possono essere sintetizzati in quattro categorie generali. «La prima è quella del volontariato di consulenza», spiega Caltabiano. «Nell’ambio dell’amministrazione, del marketing o del disegno di sviluppo organizzativo io manager entro in contratto con un ETS o un CSV e metto a disposizione queste competenze. Un secondo tipo è quello di matrice più educativa: nei dipartimenti di risorse umane delle aziende c’è un ingaggio in termini di attività di orientamento, di role model, di aiuto rivolto a bambini e ragazzi con difficoltà educative nel doposcuola, o ai giovani in servizio civile nell’orientarsi nel mercato del lavoro. O ancora alle donne vittime di violenza o di tratta. C’è poi un volontariato professionalizzante: molto spesso capita che nelle aziende ci siano dei talenti e che ci sia una figura apicale che vuole valorizzarli, ma che non li ritiene ancora pronti. Può allora decidere di inviare la persona in un Paese in via di sviluppo, in un contesto incerto, dove sviluppare doti di leadership e creatività. E infine c’è il volontariato di emergenza».
I casi di Roche Italia e Chiesi Farmaceutici
Un esempio di volontariato di emergenza è quello di Roche Italia che, durante il primo lockdown, ha visto impegnati part time 250 dei suoi lavoratori, anche loro in lockdown, in un call center per dare informazioni sui decreti di emergenza, fare compagnia agli anziani, smistare le persone con problemi di salute verso il secondo livello, quello medico. L’esperienza di Roche Italia nel volontariato di competenza è proseguita. Dalla metà del 2023 la società farmaceutica ha coinvolto circa 30 dipendenti in un’attività sistematica e qualificata di volontariato a sostegno di CasAmica di Milano, una struttura che accoglie pazienti gravi e i loro familiari in difficoltà provenienti da tutta Italia, per curarsi negli ospedali della città. Chiesi Farmaceutici nel 2020 ha iniziato un’attività di orientamento per donne fragili che frequentano i centri antiviolenza di Parma e ora si è allargata ai giovani che svolgono il servizio civile in vari ETS del territorio: questo è un progetto che ha interessato anche il CSV locale.
Volontariato di competenza e mondi professionali: Manager per il Sociale e Unigens
Una serie, poi, di forme di volontariato di competenza coinvolgono i mondi professionali. «Manager per il sociale è un tipo di volontariato che nasce all’interno di un’associazione di professionisti apicali» ci spiega Caltabiano. «Dei manager del terziario in Lombardia, manager in pensione o che stanno transitando da un incarico all’altro, mettono a disposizione la loro competenza nei confronti di organizzazioni del Terzo Settore del territorio. Un altro esempio sono gli avvocati che fanno attività pro bono». Un caso a parte è quello di Unigens, associazione di volontariato nata tra il 2017 e il 2018 come spinoff di Unicredit per collocare dei lavoratori sessantenni “esodati”, che si sono occupati di lezioni di economia per i giovani, ma che, pur finanziata da Unicredit, ha cominciato a prendere direzioni diverse e una certa indipendenza dalla casa madre.
Il 26% delle imprese italiane sono interessate al volontariato di competenza
C’è un dato interessante che spiega come il bacino in cui il volontariato di competenza potrebbe svilupparsi negli anni a venire è molto ampio: il 26% delle imprese italiane ha dichiarato di essere interessate a impegnare il proprio personale in iniziative di utilità sociale. Ma è interessante anche vedere come il 61% delle aziende sopra i 50 addetti non conosce la possibilità della deducibilità fiscale. Venire a conoscenza di questa possibilità invoglierebbe ancora di più le aziende a iniziare questa pratica. «Il legislatore ha fatto una scelta», spiega il curatore della ricerca. «Attraverso il TUIR, il Testo Unico Imposte e Redditi, all’art. 100, ha dato la possibilità alle imprese di dedurre il 5 per mille dei costi dei lavoratori dipendenti a tempo indeterminato».
La necessità della coprogettazione
La ricerca indica il volontariato di competenza come modalità prevalente di collaborazione con le imprese. Ma sottolinea come questa tipologia di volontariato vada accompagnata da un’attenta attività di coprogettazione. «C’è l’esigenza di coprogettare, anche attraverso i CSV, di fare un’operazione preliminare di allineamento delle esigenze e dei fabbisogni tra ETS, azienda e lavoratore» Ma c’è anche la preoccupazione per il rischio che alcune forme più estemporanee di volontariato aziendale, come i community day, possano tradursi in semplici operazioni di facciata. «L’esperienza di Chiesi è nata prima con un community day», commenta Caltabiano. «Spesso queste iniziative servono all’azienda a sondare il sociale, a coinvolgere i dipendenti e a raccogliere da loro l’interesse a proseguire in questi programmi. Certo, se per anni si fa solo il community day, non è un’attività che diventa incisiva a livello sociale».