SE VUOLE COLLABORARE CON GLI ENTI LOCALI, IL VOLONTARIATO DEVE FARE RETE

Un rapporto corretto tra volontariato ed enti locali si basa sulla trasparenza e si esprime nella co-progettazione. Ne parla Antonio D'Alessandro

di Redazione

L’impegno ad animare percorsi di co-programmazione tra associazioni di volontariato ed enti locali, il CSV Lazio se l’è preso nel documento CSV Lazio Futuro Prossimo, che in queste settimane è base di discussione in una serie di incontri tra lo stesso CSV e le associazioni del territorio (il prossimo incontro si terrà  il  5 aprile a Frosinone‚ nella Casa del Volontariato‚ in Via Armando Fabi snc – Palazzina NOP‚ dalle ore 15‚30 alle ore 18‚30  ).

Il rapporto tra volontariato ed enti locali è un po’ un nervo scoperto delle associazioni, come spiega Antonio D’Alessandro, vicepresidente del Centro di Servizio: «Da un lato ci sono  le associazioni, che spessissimo cercano rapporti diretti, indipendentemente dalle altre che operano sullo stesso territorio e magari sullo stesso problema. Così spesso si crea una sorta di competizione. Dall’altra parte c’è l’ente locale, e non mi riferisco solo ai politici, ma anche a funzionari e dirigenti (che poi sono quelli che rimangono mentre l’organo politico, normalmente, ha una permanenza di qualche anno) e che entrano in questo gioco, dimenticando che valore può avere, per la comunità locale, il lavoro in rete del volontariato e delle altre organizzazioni non profit».

volontariato ed enti localiEppure per un corretto rapporto tra volontariato ed enti locali, a livello legislativo gli strumenti ci sarebbero.
«C’è una grandissima distanza tra la norma e la realtà. È stata pubblicata nel 2017 la delibera della Giunta regionale “Linee guida in materia di co-progettazione tra Amministrazioni locali e soggetti del Terzo settore per la realizzazione di interventi innovativi e sperimentali nell’ambito dei servizi” e l’idea della co-progettazione è stata ripresa nella Riforma del Terzo settore (peraltro era già nella nella 328/2000). Uno dei luoghi dove era prevista la partecipazione delle associazioni erano i Piani di zona, ma questa indicazione è stata evasa spesso e volentieri in maniera burocratica, nel senso che succedeva che  il Comune capofila pubblicasse sull’albo pretorio la convocazione del tavolo di partecipazione e nessuno lo sapeva, tranne pochi “ben informati”, che spesso e volentieri  erano le stesse strutture che poi gestivano i servizi, creando una sorta di commistione poco trasparente tra la stazione appaltante – come si direbbe nel linguaggio del codice degli appalti – e i gestori dei servizi. Una commistione che in qualche modo rischiava di tagliare fuori i bisogni dell’utenza, che spesso viene rappresentata proprio dalle associazioni di volontariato».

Proprio perché sono associazioni piccole, sono abbastanza preparate per fare il lavoro di rete e di conseguenza stabilire un rapporto equilibrato con la Pubblica Amministrazione?
«Il problema è che non lo vogliono fare. Prendiamo ad esempio la protezione civile: è uno di quegli ambiti che vede in ogni Paese un’associazione e la messa in rete è stata molto faticosa ed è potuta avvenire soltanto perché lo Stato ha fatto una legge specifica. Ancora oggi c’è, quando sono disponibili contributi per l’acquisto di mezzi e attrezzature,  la concorrenza ad accaparrarsi lo stesso tipo di mezzo, anche se c’è un’associazione a pochi chilometri di distanza, che ne ha uno uguale. La colonna mobile della Regione Lazio esiste solo perché è l’istituzione che la conduce».

volontariato ed enti localiLa protezione civile è un ambito particolare.
«Anche in altri ambiti – pensiamo agli immigrati – c’è una moltitudine di associazioni che si occupano tutte della stessa cosa».

Ma il lavoro di rete non si può imporre per legge.
«No, però dovrebbe essere evidente, ad esempio su un tema come l’immigrazione, che è meglio fare una rete come Scuolemigranti, che mette insieme un centinaio di realtà diverse impegnate nell’insegnamento della lingua, piuttosto che farsi ognuno il proprio centro di consulenza che dà informazioni legali, il proprio centro di aiuto, eccetera. E poi ci sono territori pieni di iniziative e territori completamente vuoti. Dopo almeno vent’anni di esperienza in questo campo, dall’arrivo degli Albanesi a oggi, un minimo di organizzazione come quella della Rete Scuolemigranti, perché non si può realizzare su altri temi, come l’accoglienza o l’assistenza legale? Le associazioni più organizzate cercano di fare tutto al proprio interno. Su questa situazione interviene poi il politico di turno, che sostiene un’iniziativa piuttosto che un’altra. Bisognerebbe finanziare solo progetti e servizi di rete, ma nessuno lo fa. E per fortuna oggi non si fanno più finanziamenti a pioggia».

Ammesso che si riesca a costruire il lavoro di rete, cos’è che fa fare il salto di qualità e permette di entrare nella co-progettazione?
«Innanzitutto il riconoscimento, da parte dell’Ente pubblico, dell’importante funzione dell’associazionismo nella lettura dei bisogni sociali. In secondo luogo, questa funzione dovrebbe essere riconosciuta non solo alla singola associazione. Per esempio:  sulle tematiche dei minori è molto presente Save The Children, ma le tematiche che questa ong lancia, pur essendo importanti, sui territori assumono dimensioni e aspetti molto diversi. Una piccola associazione può evidenziare le specificità della situazione, declinando sul territorio l’analisi dei bisogni».

Ci si ferma all’analisi dei bisogni o la co-progettazione implica il passaggio all’erogazione dei servizi?
«L’analisi dei bisogni non si deve sovrapporre a quella dell’erogazione dei servizi, che può anche essere fatta dalle associazioni, ma non necessariamente. Anzi, può essere che nella fase di progettazione non venga coinvolto chi è destinato alla gestione dei servizi, perché c’è il rischio che porti l’acqua al proprio mulino. Anche se spesso molte associazioni si trasformano loro stesse in erogatori di servizi perché nessun altro lo fa».

volontariato ed enti localiIn realtà le associazioni sperano proprio questo: di vedersi affidare la gestione dei servizi.
«All’inizio no: in genere mettono in campo la voglia di fare. Poi è chiaro che, quando cominci ad avere anche un riconoscimento economico, dedichi sempre più tempo, allora il piano dell’analisi dei bisogni e quello della soddisfazione degli stessi si intrecciano. Si crea così un campo grigio, che però un amministratore attento dovrebbe saper governare, anche perché  i processi di co-progettazione dovrebbero privilegiare non l’una o l’altra organizzazione, ma il lavoro comune».

È la co-progettazione la strada per superare la logica dei bandi?
«Oggi ci sono, anche nel codice degli appalti, gli strumenti per superare questa logica: il partenariato per l’innovazione, l’accordo quadro, la co-progettazione stessa. La logica dei bandi è inefficiente. La “Ricerca sull’impatto sociale ed economico dell’inserimento lavorativo nelle cooperative sociali” in Emilia Romagna, fatta da Aiccon per Federsolidarietà/Confcooperative, ad esempio, dimostra che l’inserimento lavorativo della persona svantaggiata costa molto meno di quello che produce per la comunità: tra tasse sul reddito e riduzione del livello di assistenza un lavoratore svantaggiato inserito in una cooperativa sociale crea un valore medio di 4.729,74 euro per la Pubblica Amministrazione. Allora la domanda è:  è meglio ridurre il costo dell’appalto il più possibile, o valutare qual è l’impatto, anche in termini economici?».

Ci sono buone prassi di co-progettazione tra volontariato ed enti locali?
«Nel Lazio ci sono le delibere già citate, che dovrebbero trovare attuazione nel Piano Sociale Regionale e quindi nella definizione dei nuovi Piani di Zona. C’è un esempio nazionale, fatto dall’Impresa Sociale Con i bambini, che ha stanziato 6 milioni di euro nelle zone terremotate, e nessun euro è stato messo a bando. E c’è la stazione appaltante della Regione toscana che, sulla consegna delle analisi, ha fatto un accordo-quadro con il Terzo settore e ora sta valutando di allargarlo alla consegna dei farmaci».

Se avete correzioni o suggerimenti da proporci, scrivete a comunicazione@cesv.org

 

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