DAVERIO: C’È UN “SACERDOZIO MUSEALE” CHE RIPUDIA I VOLONTARI
Nel nostro Paese, il volontariato nei musei fatica ad aprirsi spazi. E la politica è assente.
12 Gennaio 2016
Dopo l’intervista ad Antonio Paolucci, continuiamo la riflessione sul volontariato nei musei con un confronto con Daverio. L’intervista è uscita sul n. 2/2015 di “Vdossier”, interamente dedicato a questo tema.
Volontariato nei musei sì, volontariato nei musei no. Il dibattito è in ebollizione, da tempo, in Italia. Da Nord a Sud c’è fibrillazione sull’argomento. Da una parte della barricata c’è il fronte dei favorevoli che preme per aprire al non profit le porte di gallerie d’arte, pinaco- teche ed esposizioni permanenti. «È una risorsa utile in tempi di tagli dei finanziamenti per la gestione dei musei pubblici da parte dell’amministrazione statale», è il leitmotiv che echeggia da Torino a Palermo. Dall’altra parte dello sbarramento c’è il fronte dei contrari che vedono il non profit come un virus da cui difendersi sbarrando porte e finestre. E giudica i volontari come un pericolo da evitare: «Terzo settore uguale manodopera a costo zero. Con solidarietà, altruismo e gratuità che rischiano di far perdere il posto di lavoro ai dipendenti, a maggior ragione in una stagione di precariato infinito e inarrestabile», è in sintesi la tesi del partito del “No”. Volontariato nei musei benvenuto, oppure volontariato indesiderato? Una potenzialità, o una minaccia? Se ne discute da anni. Ma né i politici, né la classe dirigente che governa la cultura made in Italy hanno ancora trovato una risposta. Una strada non in discesa dunque, ma impervia. Anche perché non ci sono regolamenti o leggi che disciplinano una materia tanto complessa e delicata quanto cruciale e decisiva per il “sistema Paese” e per un patrimonio storico, artistico e architettonico inimitabile. Non per risolvere il problema, ma per provare a far chiarezza sulla spinosa questione, ne parliamo con lo storico e critico dell’arte Philippe Daverio.
Volontari e personale dei musei un rapporto spesso conflittuale in Italia.
«È innegabile che il volontariato nei musei sia utile. A una condizione però: che i musei lo accolga e lo recepisca come una risorsa. Per esempio, negli Stati Uniti il volontariato è fondamentale. Lo è nelle sale aperte al pubblico, nella raccolta fondi e nell’organizzazione di eventi. In sostanza, i volontari animano la vita del museo e contribuiscono ad ancorare il museo al suo territorio, o alla sua città. Non è un caso che il non profit culturale nel mondo anglosassone sia una lobby con un peso specifico enorme».
Nel nostro Paese invece…
In Italia il sistema dei musei di Stato è impermeabile alla presenza del volontariato. E aggiungo, purtroppo. I dirigenti e i dipendenti che gestiscono e lavorano in essi non accettano i volontari. Perché nel nostro Paese, a differenza che all’estero, c’è quello che io chiamo un “sacerdozio museale” e che, come tale, è inviolabile per i non addetti ai lavori. Ribadiscono, purtroppo, che il nostro sistema museale è un mondo chiuso».
Perché?
«Perché più i dipendenti che i dirigenti hanno paura che i volontari possano in qualche modo prendere il loro posto. E anche per questo motivo, i lavoratori hanno un sindacato forte che li protegge. Infatti i dipendenti difendono il proprio posto fisso e il proprio stipendio. E poi respingono l’idea che le mansioni svolte da loro possano essere affidate a volontari. In teoria non c’è un conflitto evidente tra dipendenti e volontari, ma in pratica i dipendenti non vogliono i volontari».
Alla luce della sua lunga esperienza professionale, nei musei in cui sono impiegati i volontari, che cosa li ha visti fare?
«Si occupano sovente della custodia delle opere, anche se questo compito richiede da parte del volontario una grande responsabilità e fedeltà. E proprio per tale ragione i dirigenti dei musei ritengono che questa non sia una funzione che può essere assegnata a un volontario. Talvolta invece gli è richiesto anche un servizio di accompagnamento e di guida al visitatore all’interno del museo».
Anche all’estero è così?
«No. Oltralpe è molto diverso. Anche se il volontariato culturale è più diffuso. Lo è in Francia, lo è ancor di più in Germania e lo è tanto nel mondo anglosassone».
Eppure in Italia è radicata e diffusa una cultura del dono e della solidarietà.
«Certamente. Ed è risaputo che siamo un Paese ricco di altruismo e gratuità. Proviamo a pensare quanto gli italiani fanno in ambito socio assistenziale. Così come a quante persone si impegnano negli ospedali, o nelle case di riposo. E a quanti volontari partono ogni anno per missioni umanitarie nel terzo mondo. Tantissimi. Senza dimenticare quanti si impegnano in ambito educativo e sportivo. Quindi, in Italia c’è un’enorme disponibilità verso la solidarietà. Le persone hanno una grande voglia di rimboccarsi le maniche e di donare il proprio tempo e le proprie energie per gli altri o tutelare e valorizzare un bene comune».
Perché allora è così difficile sviluppare il volontariato culturale e, più nello specifico, il volontariato nei musei pubblici?
«Perché non è una strada facile. Non è semplice stabilire che cosa i volontari debbano e non debbano fare all’interno di un museo. È difficile fissare incarichi, incombenze e ruoli. Certamente, potrebbe e dovrebbe pensarci il ministero dei Beni culturali. Ma a Roma non sanno bene come affrontare la faccenda. Hanno tanti e tali problemi che su un argomento così preciso non ci mettono la testa. Di sicuro dovrebbero farlo, ma non hanno una visione, né una strategia, né una regia, tantomeno un piano. Di conseguenza, essendoci il vuoto, allora è meglio che i volontari non ci siamo. Così non si pone nemmeno il problema. Eppure un volontariato attivo ed efficiente permetterebbe a un museo di mettere radici e di crescere in molteplici aspetti. Invece il nostro sistema museale è fermo a trenta-quarant’anni fa, quando è stato pensato ed elaborato. È risaputo che si tratta ormai di una realtà obsoleta. E, nel dettaglio, mi riferisco ai musei di Stato, in quanto i musei civici, per esempio, hanno una maggior indipendenza».
Non a caso ci sono poi situazioni complesse e delicate come Pompei e il Colosseo.
«Sì, entrambi sono lo specchio e allo stesso tempo l’emblema della condizione in cui versa il settore in Italia. Ma ciò che vale per Pompei e il Colosseo, potrebbe valere anche per altre realtà lungo la Penisola. Purtroppo la rabbia e le proteste dei dipendenti fotografano la situazione difficile che stanno vivendo i nostri principali musei. E in questa prospettiva, è ovvio, che non vedrebbero di sicuro di buon occhio la presenza dei volontari. O meglio, vedrebbero i volontari come una possibile minaccia e un limite alla loro libertà sindacale».
Che cosa può fare il governo?
«Può fare poco. Perché né il governo, né nello specifico il Ministero sanno come affrontare la questione. A mio parere, invece, il volontariato sarebbe una boccata d’ossigeno per il sistema museale, in quanto ne favorirebbe l’apertura di orizzonti. Immaginiamo quali benefici potrebbero trarne i giovani e gli anziani, se fossero incentivati a fare volontariato all’interno di un museo. Per i giovani, che hanno del tempo a disposizione, sarebbe una straordinaria opportunità culturale, per ampliare il proprio patrimonio di conoscenze e per arricchire il proprio curriculum. Per gli anziani sarebbe un nobile passatempo che permetterebbe loro di riempire le giornate. Senza dimenticare il fatto che il volontariato prevede dei rimborsi per le spese sostenute per le attività come, per esempio, quelle di viaggio. Invece, purtroppo, su tutto questo settore non c’è un’idea chiara da parte del Ministero e dei musei stessi. Non c’è una visione di prospettiva, non c’è all’orizzonte nemmeno un’ipotesi per cambiare lo status quo. Ma fatto ancora più grave non ci sono nemmeno proposte su cui lavorare. Eppure, ripeto, gli italiani sono persone dotate di gran- di slanci di generosità ma che in questo segmento specifico non viene capitalizzato in tutte le sue potenzialità».
Di che cosa potrebbero occuparsi i volontari all’interno di un museo senza entrare in conflitto con le mansioni dei dipendenti?
«Di tre ambiti. La raccolta fondi. Per esempio basti dire che la Pietà Rondanini di Michelangelo e il dipinto il Quarto Stato di Pellizza da Volpedo sono stati acquistati grazie alla rete di solidarietà dei cittadini. Non va poi dimenticato che nel mondo anglosassone nei musei ci sono degli uffici preposti alla raccolta fondi e gestiti direttamente da volontari o da organizzazioni non profit. I volontari, inoltre, potrebbero occuparsi anche di comunicazione. E poi, laddove servisse, rimarrebbe la custodia delle opere, che non è mai un incarico di poco conto».
In Italia, dunque, la strada è ancora lunga?
«La verità è che in Italia la strada è ancora tutta la costruire. O, meglio, ancora tutta da inventare. C’è una domanda, da parte delle persone che vorrebbero impegnarsi in questo campo del volontariato, ma non c’è la risposta amministrativa. Forse, per tale motivo, servirebbe una legge ad hoc, una sorta di legge quadro, che disciplini e pianti i paletti per un volontariato museale che avrebbe ampi margini di crescita e, per rovescio, di cui l’Italia avrebbe un enorme bisogno. Dopotutto le persone sono pronte a impegnarsi, ma è la politica a non essere pronta. È il passo politico che manca, oppure se c’è è alquanto incerto. Il Ministero dovrebbe trovare delle risposte a una domanda crescente. Ma non lo fa. I cittadini sono pronti, lo Stato no. Il volontariato potrebbe svilupparsi ulteriormente, è invece è frenato da uno Stato assente su questo versante. O peggio, i musei continuano a vedere il volontariato come un’insopportabile ingerenza. Così come i musei potrebbero trarre vantaggio dalla presenza dei volontari e invece non possono e non vogliono ap- profittarne».
Ci sono esempi positivi di impiego dei volontari nei musei?
«Sì, c’è l’Associazione Amici di Brera. Sono bravi. Da quasi novanta anni operano per la conoscenza, tutela e valorizzazione dello storico Palazzo di Brera e dei musei civici milanesi. Ma non si può nascondere che, in numerosi casi, a quei volontari non si sa cosa esattamente fargli fare. È vero fanno un po’ di tutto, e loro cercano di rendersi utili in tanti modi differenti, ma è Brera stessa che non ha ancora ben chiaro come impiegarli veramente. Purtroppo non c’è un progetto, non c’è una regia. Non c’è alcun dubbio sul fatto che il loro contributo sia sicuramente im- portante e strategico. Ma è anche altrettanto innegabile che, pure in casi così positivi, si potrebbero valorizzare meglio queste preziose risorse».