IL VOLONTARIATO NELLA RIFORMA DEL TERZO SETTORE
C'è tanto controllo e voglia di mercato, ma poco su innovazione e lavoro di frontiera. Andrea Volterrani sul volontariato nella riforma del terzo settore
di Redazione
20 Giugno 2016
L’intervento di Andrea Volterrani, ricercatore di Sociologia dei processi culturali e comunicativi, Università di Roma Tor Vergata, sul volontariato nella riforma del terzo settore, in occasione del corso di formazione per giornalisti “La riforma del terzo settore”, organizzato dal Cesv a Roma il 10 maggio scorso. Il testo non è stato rivisto dall’autore.
Con il mio intervento proporrò alcune riflessioni sulle novità introdotte dalla legge e sulle difficoltà che questo percorso presenta. Per definire il terzo settore, parto da un’immagine a me cara, la Chimera, figura mitologica interessante, un po’ leone, un po’ serpente, con la testa di una capra. Perché, per chi lo percepisce dall’esterno – soprattutto in termini comunicativi o di informazione – il terzo settore è davvero una chimera. Complessa, difficile, articolata, sfaccettata. Anche prima di arrivare alla questione sulla quale ci confrontiamo oggi.
Un percorso molto lungo
La Legge di riforma del terzo settore è stata approvata in Senato: dopo l’approvazione alla Camera dei Deputati, l’iter per la successiva approvazione al Senato è stato molto lungo, perché non tutti, anche nella maggioranza, condividevano lo stesso tipo di percorso.
Una legge partita con un’idea che, sulla strada verso l’approvazione, si è trasformata in qualcosa di diverso. Nella sua formulazione originaria, la legge è stata promossa dopo il Festival del volontariato di Lucca, dove il Presidente del Consiglio, accanto al direttore di “Vita”, Riccardo Bonacina, durante il suo intervento, annunciò l’intenzione di dare avvio ad un riordino del terzo settore. In realtà – così dicono le cronache – né il Sottosegretario del Ministero del Lavoro e delle Politiche Sociali Luigi Bobba, né altri si aspettavano di dover scrivere una legge nel giro di una notte. È nato così un testo sull’impresa sociale. Da allora, il testo varato come linee guida prima e il primo testo licenziato dal Consiglio dei Ministri poi – che parlava quasi esclusivamente di impresa sociale – è diventato qualcos’altro. Un percorso che offre la dimensione della scarsa percezione anche del Governo di allora di cosa sia il terzo settore. In alcuni casi, sulla definizione di terzo settore, c’è stata, anche inizialmente, una visione molto ideologica, che ha spostato l’attenzione dalle organizzazioni senza scopo di lucro a soggetti come l’impresa sociale che – sempre inizialmente – si pensava dovessero avere degli utili e uno scopo di lucro, seppur parziale. C’era, di fatto, una concezione del tutto distorta rispetto alla realtà di ciò che è. In questo senso non mancano gli aneddoti: ambienti molto vicini a Confindustria avrebbero spinto molto perché venisse varato un testo sull’impresa sociale quale soggetto legittimato a fare utili, sanando così una serie di situazioni imprenditoriali ibride; qualcuno avrebbe addirittura fantasticato sulla possibilità di creare occupazione tramite questa legge sull’impresa sociale. Ad ogni modo, aneddotica e retroscena a parte, si è arrivati ad un testo di legge approvato in Senato.
Da legge sull’impresa sociale a legge di riordino del terzo settore
Si parte dall’oggetto delle attività. L’articolo 1 del nuovo testo di legge approvato in Senato recita: «Al fine di sostenere l’autonoma iniziativa dei cittadini che concorrono, anche in forma associata, a perseguire il bene comune, ad elevare i livelli di cittadinanza attiva, di coesione e protezione sociale, favorendo la partecipazione, l’inclusione e il pieno sviluppo della persona, a valorizzare il potenziale di crescita e di occupazione lavorativa, in attuazione degli articoli 2, 3, 18 e 118, quarto comma, della Costituzione…»
In pratica la panacea a tutti i mali: mettere insieme elementi tanto diversi dà la dimensione di una legge che, già dall’articolo 1, è stata costretta a trovare la quadratura del cerchio. In questo articolo si parla di temi che vanno dallo sviluppo occupazionale a qualunque altra cosa. Tutte cose positive, per carità, il mondo dei super buoni. Ironizzo perché l’articolo 1, durante tutto l’iter che la legge ha seguito, è rimasto più o meno inalterato. Perché? Perché non interessava a nessuno. Interessava solo che contenesse tutta una serie di elementi perché tutti fossero felici e contenti. Il risultato è un oggetto molto ampio, che va a coprire attività, settori ed ambiti completamente diversi tra loro: si va dalle attività sportive a quelle di promozione e valorizzazione dei beni culturali, agli interventi socio-assistenziali o socio-sanitari o sanitari. Si tratta di temi infiniti, occupandosi la legge delle organizzazioni, che, a loro volta, si occupano di temi ampi.
Sulla definizione di terzo settore
Saranno 35 anni che giuristi, sociologi, antropologi, economisti provano, senza successo, a trovare una definizione condivisa di terzo settore. Tuttavia la legge prova a darne una, sempre all’articolo 1: «Per terzo settore si intende il complesso degli enti privati costituiti per il perseguimento, senza scopo di lucro, di finalità civiche, solidaristiche e di utilità sociale e che, in attuazione del principio di sussidiarietà e in coerenza con i rispettivi statuti o atti costitutivi, promuovono e realizzano attività di interesse generale mediante forme di azione volontaria e gratuita o di mutualità o di produzione e scambio di beni e servizi». In sostanza cristallizza l’articolazione italiana delle forme organizzative presenti in Europa, nel mondo occidentale e in quello statunitense. Nel nostro paese, il terzo settore è articolato in tre soggetti: le associazioni di volontariato (le forme di azione volontaria e gratuita); le associazioni di promozione sociale (che hanno sanato la situazione di quell’associazionismo che non sapeva dove stare, se nel volontariato o nell’associazionismo in generale. Per fare un esempio dei soggetti più grandi, le Arci e le Acli). La mutualità e la produzione e scambio di beni e servizi, invece, sono, in realtà, svolte da tutte queste organizzazioni, ma, in modo particolare, da quella forma organizzativa innovativa costituita in Italia nel 1991 che è la cooperazione sociale. Un’attività di tipo imprenditoriale che aveva, ha e continuerà ad avere caratteristiche diverse dalla cooperazione “normale” e dalle attività imprenditoriali vere e proprie perché, nella sua forma più particolare – quella di tipo B – i soci devono essere almeno per il 40% svantaggiati (disabili, ex detenuti, persone con disagio mentale, eccetera). La forma della cooperativa sociale continua a sussistere dal 1991, era un’innovazione allora e continua, in parte, ad esserlo ancora oggi.
Chi è fuori dal terzo settore (ma in realtà è dentro…) Sempre all’articolo 1 si legge che «Non fanno parte del terzo settore le formazioni e le associazioni politiche, i sindacati, le associazioni professionali e di rappresentanza di categorie economiche». La legge analizza, quindi, chi non è parte del terzo settore: i partiti politici, i sindacati, ma già le associazioni professionali di rappresentanza delle categorie economiche si escludono del tutto con più difficoltà. Ci sono, infatti, organizzazioni di categoria che rappresentano parti del terzo settore – basti pensare ad alcuni soggetti della cooperazione sociale che hanno le proprie organizzazioni di categoria – che si trovano ad avere una rappresentanza fuori dal mondo del terzo settore. È interessante una puntualizzazione rispetto alle fondazioni bancarie. Ancora, l’articolo 1 afferma: «Alle fondazioni bancarie, in quanto enti che concorrono al perseguimento delle finalità della presente legge, non si applicano le disposizioni contenute in essa e nei relativi decreti attuativi». Perché? Per questo mondo le fondazioni bancarie sono state e sono rilevanti: tutti conoscerete il Fondo Atlante, costituito da un soggetto privato, con il concorso delle fondazioni bancarie, per il salvataggio delle banche entrate in sofferenza. Ebbene, le fondazioni bancarie, insieme a Cassa Depositi e Prestiti, sono le vere casseforti del nostro paese. Con la legge sul volontariato 266 del 1991, le fondazioni bancarie sono tenute ad assegnare l’un quindicesimo degli utili annuali ai fondi destinati ai Centri di servizio per il volontariato. Nel 1991 le fondazioni bancarie opposero ricorso a quanto la legge sul volontariato stabiliva in questo senso, trattandosi di cifre importanti (nel momento di massimo splendore si sono raggiunti i 100 milioni di euro annui, ora siamo intorno ai 35) che, all’inizio, dovevano essere distribuiti solo al Centro e al Nord Italia, essendo le fondazioni bancarie concentrate soprattutto in quella parte del paese, perché quelle del Centro Sud e del Sud non sono sopravvissute alle ristrutturazioni bancarie degli anni Novanta. Le fondazioni bancarie sono, quindi, soggetti rilevanti. Eppure, curiosamente, proprio perché rilevanti, da questa legge non sono toccate, né ora, né in futuro.
Il volontariato nella riforma. Cosa cambierà con i decreti delegati
Sebbene su alcune questioni ci siano elementi più concreti, su altre meno, la discussione sui decreti delegati è già cominciata perché era stato dato per scontato un iter di approvazione della legge abbastanza breve. Così non è stato, ma il lavoro è andato avanti. Il punto è che la materia che i decreti delegati dovranno normare è davvero tanta.
Il punto è che parliamo di una legge che dà un quadro generale, ma che i decreti delegati potrebbero, non dico stravolgere, ma, su alcune questioni, cambiarne il volto, dando indirizzi importanti. All’articolo 3 si legge che i decreti delegati avranno il compito di «(…)b) individuare le attività di interesse generale che caratterizzano gli enti del Terzo settore; (…) d) definire forme e modalità di organizzazione, amministrazione e controllo degli enti ispirate ai princìpi di democrazia, eguaglianza, pari opportunità, partecipazione degli associati e dei lavoratori nonché ai princìpi di efficacia, di efficienza, di trasparenza, di correttezza e di economicità della gestione degli enti; e) prevedere il divieto di distribuzione, anche in forma indiretta, degli utili o degli avanzi di gestione e del patrimonio dell’ente (…) Su diversi aspetti si pone molto l’accento sugli elementi del controllo. Siamo a Roma ed è evidente che Mafiacapitale resta una delle preoccupazioni in alcuni ambienti ministeriali, tanto che l’idea del controllo, in alcuni casi anche abbastanza stringente, emerge fino a diventare anche eccessiva. In questo senso si stabilisce che i decreti delegati dovranno prevedere il divieto di distribuzione degli utili – che già esiste da tempo nelle leggi che regolamentano il volontariato (la 266 del 1991), la promozione sociale (la 383 del 2000), la cooperazione sociale (la 381 del 91) –. Anche in questa legge si prevede una distribuzione degli utili estremamente limitata solo per la cooperazione sociale. Il fatto che occorra un decreto delegato per sottolineare questo elemento è curioso. Poi c’è un primo controllo (la tenuta della contabilità separata) perché, evidentemente, c’è la necessità di capire come vengono impegnate le risorse per le varie attività da parte di organizzazioni che, certamente, in qualche caso, hanno le caratteristiche di grandi istituzioni o cooperative, ma che, nella maggior parte dei casi, sono micro organizzazioni che non hanno la possibilità di costruire i bilanci secondo questa ottica. Forse, però, saranno i decreti delegati ad introdurre distinzioni fra i vari soggetti. Ancora, l’articolo 3 recita: “f) individuare criteri che consentano di distinguere, nella tenuta della contabilità e dei rendiconti, la diversa natura delle poste contabili in relazione al perseguimento dell’oggetto; g) disciplinare gli obblighi di controllo interno, di rendicontazione, di trasparenza e d’informazione nei confronti degli associati, dei lavoratori e dei terzi (…); h) garantire, negli appalti pubblici, condizioni economiche non inferiori a quelle previste dai contratti collettivi nazionali di lavoro; i) individuare specifiche modalità e criteri di verifica periodica dell’attività svolta e delle finalità perseguite (…)». Tutti elementi già normati, inseriti per sottolineare una logica di controllo. Quindi, proseguendo, la legge si sofferma sulla verifica periodica dell’attività svolta e delle finalità perseguite; la pubblicità rispetto a emolumenti, compensi, corrispettivi per dirigenti e consigli di amministrazione; il Registro unico nazionale del terzo settore tenuto direttamente dal Ministero; la valorizzazione del ruolo di co-programmazione dei soggetti del terzo settore «improntati al rispetto di standard di qualità e impatto sociale del servizio, obiettività, trasparenza e semplificazione (…) nonché criteri e modalità per la verifica dei risultati in termini di qualità e di efficacia delle prestazioni (…)»
L’altra “novità” è l’impresa sociale
Secondo il primo testo della legge, l’impresa sociale poteva fare utili, non tantissimi, ma li poteva fare. Tuttavia, quando si parla di terzo settore, si parla di soggetti che dovrebbero essere tutti senza scopo di lucro: perché si introduce un’organizzazione che ha scopo di lucro? La disciplina normativa sull’impresa sociale c’era già, ma, di fatto, era fallimentare: in Italia le imprese sociali saranno circa 600 – a fronte delle circa 300mila organizzazioni senza scopo di lucro dell’ultimo censimento nazionale –. Una disciplina, che quindi, andava ristrutturata. Ma la differenza tra ristrutturare una disciplina e spiegare i motivi per cui si debba costruire una società di persone al posto della cooperazione sociale, che già è un’impresa sociale, ma che ha, appunto, una forma cooperativa, ha dato adito a lunghe discussioni. Ne deriva un’ultima formulazione dell’articolo che innova molto poco rispetto all’impresa sociale – che continua a non fare utili – ma dà la possibilità di costituire una società di persone. Possibilità, che tuttavia, già esisteva. Saranno probabilmente ampliati i settori e ci saranno specifici elementi di vantaggio per l’impresa sociale.
I Servizio civile universale e la Fondazione Italia sociale
La costituzione della Fondazione Italia sociale viene proposta dal consigliere per il sociale del Presidente del Consiglio, Vincenzo Manes , colui che aveva dato vita a Dynamo Camp, con sede a Pistoia. Inizialmente si pensava di inserire nella legge una quantità di risorse piuttosto elevata, mentre il patrimonio iniziale per la Fondazione Italia sociale fu di un milione di euro, che per una fondazione di livello nazionale è nulla. Nella sostanza una sconfitta di questa idea, poi il Governo potrà decidere di prevedere altre risorse, ma non saprebbe dove trovarle. Non è un caso che Manes fosse andato a bussare alle porte delle fondazioni bancarie di cui parlavamo prima, ricevendo un “no, grazie” in risposta. La Fondazione Con il Sud, emanazione delle fondazioni bancarie insieme a Centri di servizio per il volontariato e Forum nazionale del terzo settore, è stata costituita dieci anni fa con un patrimonio di circa 300 milioni di euro (ora 500). Nonostante questo, si pensa che Fondazione Con il Sud sia irrisoria rispetto alla capacità di intervento in un contesto come quello del nostro Sud. È, quindi, evidente che un milione di euro di Fondazione Italia Sociale sia una cifra nulla, anche se l’operazione è stata inserita ugualmente confidando in finanziamenti altri.
Per tirare un po’ le fila sul volontariato nella riforma
C’è troppo e troppo poco. C’è troppa legalità, un’idea di legalità negativa legata al controllo, un’idea di legalità molto forte perché si punta molto sulla trasparenza. C’è troppa voglia di mercato, di un mercato ipotetico che ha poco senso di esistere nel contesto di cui si parla, ma che continuiamo a raccontare. Un’idea di apertura completa al mercato – come se il mercato potesse risolvere i problemi non si sa bene di che cosa e di chi – che è stata interrotta, ma che resta come elemento di fondo. C’è troppo poco. Sull’innovazione non c’è quasi nulla; su co-programmazione e co-progettazione si spera nei decreti delegati; c’è troppo poco sul lavoro di frontiera, sul rischio, sulle cose di cui nessuno si vuole occupare, tanto meno le imprese. C’è poco sull’autonomia, sul favorire e promuovere partecipazione e democrazia; non c’è niente sulla comunicazione. Ci troviamo in una situazione che, certamente, apporta dei cambiamenti, ma se le leggi su volontariato, promozione sociale e cooperazione sociale già c’erano, non bastava una più semplice legge di riordino, senza un tanto travagliato percorso alle spalle?