
WELFARE AZIENDALE: BENESSERE NELLA VITA E SUL LAVORO
Presentato a Roma l’ottavo Rapporto Censis sul welfare aziendale, riconosciuto come elemento importante di benessere. I lavoratori chiedono salute, cultura, benessere mentale. Filandi: «Da una parte il welfare aziendale produce inclusione, dall’altra disuguaglianza»
26 Febbraio 2025
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Un tempo, ai colloqui di lavoro, era chi assumeva che concludeva l’incontro con il classico «le faremo sapere». Oggi è il candidato che, di fronte al rappresentante dell’azienda, dice «le farò sapere». I giovani lavoratori oggi hanno in mano un potere contrattuale più forte e sono anche più attenti a una serie di aspetti. Ad esempio, tendono a riequilibrare vita professionale e vita personale. E cresce l’esigenza di vedere riconosciuti alcuni bisogni e desideri. Se ne è parlato a Roma, alla presentazione dell’ottavo Rapporto sul welfare aziendale del Censis, dal titolo Lavoro, aziende e benessere dei lavoratori: un’epoca nuova, introdotto da Giorgio De Rita, Segretario Generale e illustrato da Sara Lena, ricercatrice. I lavoratori dipendenti esprimono preoccupazioni sulla propria salute e il proprio futuro, ma c’è qualcosa di più: una domanda, un desiderio di vedere riconosciuta l’importanza della tutela del benessere personale. Il lavoratore chiede che siano messi al centro i bisogni della persona. L’azienda, d’altra parte, oggi comincia ad avere difficoltà nell’attrarre o trattenere i lavoratori. Il welfare aziendale allora non è più solo quella funzione di accompagnamento per rispondere ai bisogni dei lavoratori, ma diventa un cardine del rapporto tra impresa e lavoratori, e serve ad evitare il turnover.
Il lavoro deve contribuire al benessere
Gli italiani sono alla ricerca di un lavoro gratificante, che possa portarli a un benessere completo. Per l’83,4% dei lavoratori dipendenti è una priorità che il lavoro contribuisca al proprio benessere olistico. L’azienda non è più uno spazio neutrale dove tutto ciò che accade altrove si sospende: quando il lavoratore entra nel suo posto di lavoro vuole essere riconosciuto nella sua totalità psicofisica. E quindi l’azienda deve contribuire al benessere di tutti i lavoratori. Ma che cosa evoca la parola benessere? Per il 63,2% significa salute, per il 42,4% tranquillità, per il 34,4% equilibrio. Un tempo il benessere era associato al fattore economico, oggi ha soprattutto un carattere psicofisico. E allo stare bene fisico, qui, seguono due caratteristiche psicologiche. Per il 63,5% dei lavoratori l’azienda in cui lavora potrebbe fare molto per migliorare il suo benessere. Il 66,7% dei lavoratori è convinto che la conquista del benessere dipenda però anche da quello che il lavoratore sceglie e decide di fare. Nasce allora l’idea dell’azienda come hub del benessere, non solo in caso di bisogni conclamati, ma anche con una serie di iniziative che vanno al di là di un’esigenza specifica.
Cosa chiedono i lavoratori? Salute fisica, cultura, benessere mentale
I malesseri al lavoro sono una situazione ricorrente. Al 31,8% è capitato di provare sensazioni di esaurimento, estraneità o sentimenti negativi, e al 25% di vivere situazioni di stress o ansia. Ma è forte l’osmosi tra vita privata e lavoro. Il 25,7% porta al lavoro i problemi di casa, mentre il 36,1% si porta i problemi lavorativi a casa, che influiscono così sulle relazioni con la famiglia e i compagni di vita. 3 milioni di dipendenti sono affetti dalla sindrome da corridoio, intreccio di ansia e stress da lavoro e vita personale. L’88,9% dei dipendenti conosce il welfare aziendale. E l’85,8% richiama esplicitamente gli aspetti di welfare aziendale come importanti per il benessere olistico. Che cosa chiedono i lavoratori dipendenti all’azienda in questo senso? L’80,3% vorrebbe iniziative legate alla salute fisica, il 74,8% accesso alla cultura, il 63,5% un supporto nell’investire nel proprio benessere mentale. Ad esempio, la possibilità di avere uno psicologo o di fare yoga e meditazione. Il 41,8% vorrebbe poter contare su un consulente esperto in cui avere fiducia per suggerimenti e indicazioni su sanità, assistenza ai non autosufficienti, previdenza.

Un buon rapporto con superiori e colleghi, autonomia, flessibilità negli orari
Ma ci sono degli aspetti del buon lavoro che contribuirebbero al benessere. Secondo il 94,6% sono un buon rapporto con superiori e colleghi, secondo il 93,1% la possibilità di operare con un certo grado di autonomia, secondo il 91,6% la flessibilità negli orari di lavoro, secondo l’87,6% il sentirsi valorizzati in azienda. Sono dunque saltate le mura che separano la vita dentro e fuori l’azienda: la persona che varca la soglia del luogo di lavoro per assumere la veste sociale del lavoratore non c’è più. Si vuole essere se stessi anche sul lavoro.
Aiuto psicologico: il sistema sanitario pubblico non offre risposte adeguate
Nasce quindi la necessità di un’inedita attenzione anche all’equilibrio psicofisico. «Uno dei punti più interessanti è l’alta percentuale di richiesta di avere supporto sul piano della salute mentale, anche a fronte della difficoltà ad avere risposte da un sistema sanitario che viene messo sempre sotto pressione» commenta Chiara Braga, presidente del gruppo PD alla Camera dei Deputati. «Più che in altri settori, sul fronte psicologico si fa fatica a trovare nel sistema sanitario pubblico attuale delle risposte adeguate».
I lavoratori non vanno spremuti
Lo scenario presentato dal rapporto Censis evoca delle immagini. La prima è quella della maschera. «Siamo stati abituati a indossare la maschera del ruolo quando entravamo nel posto di lavoro, e questo ci ha dato uno scollamento, come se dovessimo lasciare fuori una parte di noi» spiega Eleonora Valé, psicologa del lavoro. «Ma abbiamo dei bisogni. Che, come quello della flessibilità, sono di tutte le generazioni, non solo dei giovani che li stanno portando avanti». L’altra immagine è l’arancia spremuta. «È come se le organizzazioni si fossero abituate a spremere la risorsa fino a che non c’è più succo» continua. «Questo crea una disfunzione sia organizzativa che per le persone. Il 31% ha provato situazioni di esaurimento o burnout. Una persona per tornare in forza ci mette tra i sei mesi e un anno. Ma se la persona sta bene dà un profitto maggiore».
Lavorare non basta più
Lavorare non basta più, recita il titolo del libro di Marianna Filandi, sociologa dell’università di Torino. «L’identità del lavoro è fondamentale» spiega. «Ancora oggi i giovani vogliono lavorare. Abbiamo chiesto loro: se non avessi bisogno lavoreresti? 4 su 10 hanno risposto di sì. Noi ci presentiamo con il nostro lavoro. Sono Marianna e sono una sociologa. E se un lavoratore si sente sicuro spende di più: è anche una questione di muovere l’economia». Ma avere un lavoro ha dei costi. «Fisicamente mi devo trasportare verso il posto di lavoro. Chi lavora spende per mangiare. Le famiglie di lavoratori spendono il 12% in più per il cibo. Un welfare aziendale dovrebbe ridurre i costi per andare a lavorare: mensa aziendale gratuita, lavoro da remoto. Perché non recarsi fisicamente sul posto di lavoro è un altro costo risparmiato». E c’è un ultimo punto da sottolineare. «Da una parte il welfare aziendale produce inclusione» aggiunge Filandi. «Dall’altra disuguaglianza, perché dipende da dove si lavora e che lavoro si fa». Welfare aziendale significa allora dar valore del lavoro. Come conclude la sociologa. «Il lavoro è fondamentale. Merita attenzione perché chi lo svolge è una persona».
