WELFARE DEL FUTURO: PIÙ PESO AL VOLONTARIATO
Emilia De Biasi, presidente della Commissione sanità del Senato, spiega perché il volontariato merita un ruolo da protagonista nel welfare di domani
di Elisabetta Bianchetti e Paolo Marelli
28 Aprile 2016
In un’intervista a VDossier n. 3/2015 la Senatrice Emilia de Biasi analizza il ruolo chiave del volontariato e del Terzo settore nel futuro delle politiche sanitarie
Un ruolo e un peso crescenti per il volontariato. Sia nella programmazione sia nella progettazione delle politiche sanitarie. La senatrice Emilia De Biasi non ha alcun dubbio sul ruolo del volontariato nel welfare del futuro. Tuttavia la riflessione della presidente della Commissione sanità di Palazzo Madama ruota su un punto fermo: «Occorre dare più voce al Terzo settore, ma in ambiti stabiliti e chiari.
La riforma del Terzo settore va in questa direzione. Nel settore sanitario ci sono numerose associazioni di pazienti con una grande competenza, perché vivono in prima persona i problemi legati alla patologia di cui sono portatori. E aggiunge: «La richiesta che ci arriva è di un maggiore coinvolgimento nei tavoli in cui si disegnano le politiche sanitarie. Così come nelle formulazioni delle linee guida e dei singoli progetti. Un’istanza giusta a cui però i ministeri nel tempo hanno sempre detto no». Per questo motivo, nell’ultima legge di stabilità era previsto un emendamento per il coinvolgimento delle associazioni dei pazienti nella valutazione dei livelli essenziali di assistenza. I Lea infatti sono il cuore del servizio sanitario nazionale, in quanto sanciscono i livelli minimi al di sotto dei quali il servizio erogato non può scendere. Ma su quest’ultimo punto – continua la senatrice – è stato detto “no”. Una risposta negativa incomprensibile». Un altro emendamento, votato all’unanimità da tutta la Commissione sanità del Senato, invece è stato approvato ed ha ripristinato la competenza del Parlamento nel parere sui Lea, visto che nella stessa legge di stabilità questa prerogativa era stata abrogata lasciando il compito della valutazione solo ai Governi nazionale e regionali.
Anche perché sui livelli di assistenza chi può parlare meglio se non i cittadini che hanno e vivono con un problema di salute?
«Esattamente. Ed è per tale ragione che la voce delle associazioni deve essere considerata, sia a livello nazionale che regionale. I politici non possono non consultare il volontariato se vogliono valutare lo stato reale delle cose e raccogliere gli stimoli che giungono da esso. Anche perché i cittadini meritano di vedersi garantito il diritto alla salute. Non come oggi che abbiamo ancora Regioni dove mancano i farmaci necessari per alcune cure».
C’è poi il segmento del volontariato di relazione e ascolto attivo nelle strutture sanitarie, con Odv che ormai sono insostituibili.
«Oggi più di ieri. Poiché c’è una crescente presa in carico territoriale del malato, dove è evidente che c’è bisogno di volontari formati e preparati. Volontari che non siano succedanei degli infermieri, ma che, con caratteristiche diverse, si prendano cura del malato. Ormai la cronicità di alcune malattie non è più rara, ma è diventata una costante per la nostra società. Certamente, quando parliamo di strutture sanitarie, i paletti devono essere chiari nel rispetto delle scelte di ognuno, riguardo in particolare ad alcune tematiche sensibili come per esempio l’interruzione volontaria di gravidanza. Ma il rapporto con la privacy non riguarda solo le tematiche sensibili, è un valore che rientra nelle dinamiche di coinvolgimento delle associazioni nel Pdta (Piano diagnostico terapeutico assistenziale). Ed è proprio all’interno di questo percorso che il volontariato del prossimo futuro potrà trovare un suo ulteriore ambito di servizio. Questo comporta che il sistema-salute lavori per una totale sinergia fra sociale e sanitario. Non a caso, la riforma costituzionale dell’articolo 117 contiene un dettato importante che prevede un’integrazione tra sanitario e sociale. In secondo luogo, prevede che le Regioni – a cui compete la materia sanitaria e sociale – collaborino di più fra di loro e con lo Stato affinché non ci siano più ventuno modelli sanitari differenti, uno per ciascuna Regione, fatto quest’ultimo che comporta pesanti ricadute per la salute dei cittadini. Perché non può dipendere dal territorio in cui si vive la possibilità o meno di essere curati e di guarire. Ci sono casi di Regioni che hanno speso i soldi della sanità per altro, invece che per la sanità; casi in cui non sono erogati farmaci essenziali come quelli per curare l’epatite C e per cui lo Stato ha stanziato un miliardo in due anni. I cittadini devono avere tutti gli stessi diritti e le medesime opportunità in un Servizio Sanitario Nazionale come il nostro che è universalistico».
Ci sono invece stimoli che dal volontariato arrivano alle istituzioni?
«Sì, ci sono numerosi stimoli. Ma ciò che manca è il tramite. Non si capisce e non è chiaro quali siano i percorsi che il volontariato deve seguire per avere accesso alle istituzioni e farsi sentire e ascoltare.
Ecco perché occorre ripartire dalla vecchia idea di aprire dei canali di comunicazione e di lavoro comune fra gli enti non profit e la pubblica amministrazione. Perché, se è vero che il volontariato ha tante idee, è altrettanto vero che servono dei luoghi di incontro con le istituzioni. Soprattutto sulle singole questioni. Perché non credo alle grandi consulte, le quali troppo spesso si sono rivelate uno sterile parlarsi addosso, oppure una tribuna delle opinioni. Viviamo ormai nell’epoca della concretezza. Con uno slogan potremmo dire: meno parole e più progetti. Occorrono soluzioni condivise. Un esempio? Prendiamo il campo della salute mentale. È indubbio che il lavoro sia complesso. È necessario utilizzare le risorse esistenti per una progettazione territoriale che sia in grado di affrontare il problema della salute mentale da più punti di vista. A questo proposito merita di essere citata l’esperienza del supporto fra “pari” realizzata all’ospedale di Saronno (Varese), dove i pazienti diventano a loro volta soggetti di mediazione verso altri pazienti, cioè si fanno carico di una persona più fragile. Questo permette un’autorealizzazione personale perché i pazienti sperimentano responsabilità e comunicazione, quindi, a piccoli passi, avviano un percorso indirizzato verso l’autonomia e l’inclusione».
Come presidente della Commissione sanità le vengono in mente altri esempi virtuosi?
«Penso a tutte le associazioni che operano nel campo dell’oncologia e delle cure palliative che stanno cercando di puntare sull’innovazione. Per esempio, c’è un’associazione che ha iniziato con il Ministero del Lavoro un percorso di avvio al volontariato per i lavoratori in cassa integrazione, anche per ridare una possibilità a chi è senza occupazione. E proprio nel campo delle cure palliative vi è un’innovazione di sistema che potrà dare molto spazio all’intero Terzo Settore: le cure palliative non saranno legate solo alla terminalità oncologica, ma si organizzeranno sul territorio e accompagneranno la terminalità in generale. Molto dinamiche sono anche le associazioni che operano nel campo dell’autismo. E, a questo proposito, speriamo che la nuova legge possa incentivarle ulteriormente. Le migliori esperienze comunque sono quelle che non tendono a preservare, ma a spingere la persona a comunicare sempre di più con il mondo, affinché se ne senta parte e vi partecipi attivamente».
Quali invece le criticità che il volontariato deve superare?
«La principale criticità del volontariato è la sua pretesa di invadere il campo professionale. Non ci si può improvvisare e inventare per ciò che non si è. Il ruolo del non profit è di integrazione in un progetto. E in questa direzione bisogna andare».
Che futuro intravede per il volontariato sanitario?
«Dipenderà dalle scelte che faranno le istituzioni di riconvertire la spesa sulle esigenze dell’oggi, tanto sul piano organizzativo quanto sul piano della presa in carico della persona. Se tutto rimarrà così com’è ci sarà un sovraffollamento negli ospedali e una solitudine sul territorio. Al contrario, se si procederà con la riforma prevista nel Patto per la salute, si sposterà il baricentro dall’ospedale (che dovrebbe rimanere un presidio per acuti) al territorio. È quindi evidente che l’opera del volontariato non sarà più di assistenza esterna, ma diventerà parte stessa della presa in carico del malato sul territorio. Avrà, dunque, un ruolo chiave nel progetto di una salute sempre più personalizzata. Insomma, una svolta. Anche perché, nei prossimi anni, non possiamo aspettarci un aumento dei finanziamenti. Di conseguenza, occorrerà una riconversione della spesa pubblica contrastando sprechi e corruzione. Se questa è la strada, è chiaro che la conformazione dei servizi territoriali non potrà che essere a rete e il ruolo del volontariato cruciale».
Nella prospettiva di un volontariato sempre più importante per il welfare, come definire la cultura del dono?
«La cultura del dono è sapere che io esisto perché esiste l’altro. E tale relazione non può prescindere dal dono. Il tema del dono è di grande attualità. Non a caso, il Presidente Ciampi ha promosso la legge che celebra la Giornata del Dono. Una ricorrenza che ha a che fare sia con la vita che con la morte. Donazione degli organi, degli ovociti e dei gameti, del sangue, sono tutti temi importanti. A maggior ragione di fronte agli ultimi dati che segnalano un calo delle donazioni. Siamo, dunque, in presenza di una cultura della donazione che arranca anche perché non viene alimentata. Infatti la cultura del dono cresce solo se viene promossa. Invece credo siano pochi i Comuni in Italia che informano i cittadini sulla possibilità di donare i propri organi. Comunicazione avara anche nelle aziende ospedaliere, in particolare all’interno dei locali aperti al pubblico. E molto scarsa è la promozione della cultura del dono da parte delle istituzioni nazionali e regionali. Le persone sanno troppo poco rispetto a questa possibilità. E, ovviamente, se le cose non si conoscono, non vanno avanti da sole. Mentre sono convinta che ci sia una grande “voglia” di donare da parte dei cittadini. Peccato che non si sappia come».