POVERTÀ NASCOSTA: IL WELFARE DELL’AGGANCIO AIUTA A TROVARLA
Il welfare dell’aggancio può dare risposte nelle zone grigie della povertà sconosciuta ai servizi. Così un emporio solidale o una stazione diventano luoghi di inclusione
18 Dicembre 2017
Nel periodo in cui a Roma era nato il sistema delle social card per rispondere al problema della povertà, ci si è accorti che molte delle domande per accedervi erano state fatte da persone sconosciute ai servizi sociali, che non erano mai state prese in carico. La ricerca che ha pubblicato Alleanza contro la povertà lo conferma: a Roma – ma accade in ogni parte d’Italia – c’è una fetta di persone che chiede aiuto, che fa richiesta del sussidio che è sconosciuta ai servizi.
Sentiamo parlare di 4 milioni e 742mila individui in povertà, secondo i dati Istat. Stando così le cose, sarebbe una persona su 12. Un dato impressionante. Tutto questo ci fa capire come ci troviamo dentro una realtà che pensavamo di capire, che guardavamo soltanto pensando al povero che incontriamo nelle stazioni, che dorme per strada. In realtà la povertà è qualcosa di molto più complesso. Serve trovare un modo per conoscere quelle persone che sono in difficoltà ma non chiedono aiuto, le cui difficoltà sono meno evidenti, quelle che non lo ammettono, o non lo danno a vedere per pudore. Perché, se ci pensate, non è facile andare in supermercato e tirare fuori la social card: equivale a dire “sono povero”. Questo nuovo modo è il welfare dell’aggancio. Se ne è parlato a Capodarco, nel corso del Seminario per giornalisti di Redattore sociale “Il mio giardino”.
L’EMPORIO SOLIDALE. Per mettere in atto il welfare dell’aggancio serve accogliere, invitare, attirare le persone in dei luoghi di inclusione. Gli empori solidali sono un luogo, e un progetto, grazie al quale si è riusciti a conoscere meglio queste persone sconosciute ai servizi, persone che si sono trovate in povertà e hanno chiesto aiuto. Dora, l’emporio solidale di Reggio Emilia, nato grazie all’impegno di DarVoce, il Centro di servizi per il volontariato locale, è nato proprio per questo, e sin dalla sua ideazione è stato pensato per includere e “agganciare”.
«I primi empori erano magazzini con le cose buttate lì», ci racconta Federica Severini, del CSV di Reggio Emilia. «Volevamo che fosse un vero supermercato come quelli in cui noi andiamo a fare la spesa: accogliente, bello, dove so di trovare le cose che posso consumare». «Reggio Emilia non aveva grossi problemi di distribuzione del cibo: di fame non è mai morto nessuno» continua. «Il sistema più conosciuto è quello delle borsine, con dentro qualcosa che qualcun altro sceglie per le persone. Ma il fatto di essere poveri non vuol dire che qualcun altro debba scegliere per te quello che devi mangiare. Per noi essere poveri non è una colpa, soprattutto in questo momento. Il nostro è un supermercato, dove ognuno può scegliere le cose che mangia, in autonomia, non facendosi scegliere le cose da altri. Questo implica uno sforzo: se non c’è il latte nel nostro paniere dobbiamo trovarlo».
Dora è un luogo per le persone in difficoltà, ma anche per quelle che non lo sono, che così possono vedere una realtà che è poco conosciuta, ma esiste. La popolazione dell’Emilia Romagna è di 4 milioni e 5oomila persone: di queste il 12,89% non sono italiane, e il 4,8% delle famiglie vive in condizioni di povertà relativa. Anche queste famiglie possono rivolgersi a realtà come l’emporio. «Ci sono tantissime sfumature di povertà», riflette Federica Severini. «Non ci sono solo la povertà gravissima e le persone che vivono dignitosamente, ci sono molte sfumature in mezzo».
IL SUPERMERCATO DELLE RELAZIONI. Il welfare dell’aggancio ha seguito una modalità precisa. «Siamo partiti dalle segnalazioni dei servizi sociali e abbiamo affiancato questa modalità alle progettualità di raccolta di cibo» ci racconta. «Abbiamo scelto come target quelle persone che in questo momento – perché hanno perso il lavoro o magari per malattia – sono in situazione di povertà, ma hanno la possibilità nel tempo di rendersi autonome. È una fascia alta, ma non arrivano ai servizi sociali, che hanno molta difficoltà a trovarli. Puntavamo a 50 famiglie: non riuscivamo a trovarle, l’emporio è in un quartiere bello, ma dove tutti sanno ci sia un disagio. Ci sono case popolari, persone con difficoltà con la legge. E ci abbiamo messo sopra il Centro di Servizi per il Volontariato».
All’emporio c’è un via vai. «Ci vengono le persone che abbiamo contattato. Ma altre che vedono questo posto entrano e chiedono come si fa a fare la spesa qui, tutta una serie di persone che non si rivolgono ai servizi sociali. Perché temono che poi gli portino via i figli e così via. È il welfare dell’aggancio, l’andare a cercare le persone, e non aspettare che vengano ai servizi sociali». È anche mediare tra il numero delle famiglie a cui dare da mangiare e quello delle famiglie con cui creare relazioni. «Chiamiamo Dora il supermercato delle relazioni» spiega Federica Severini. Il welfare dell’aggancio crea anche volontari (a Dora sono 500). «Spesso delle persone che vengono a fare i volontari, tanti sono stati agganciati, sono potenziali clienti dell’emporio» ci spiega. «Per noi è stato il modo di farli conoscere ai servizi sociali».
GLI HELP CENTER NELLE STAZIONI. Ci può essere welfare dell’aggancio anche in un altro luogo, la stazione dei treni, che può diventare un luogo di inclusione. Alessandro Radicchi, direttore dell’Osservatorio Nazionale sul Disagio e la Solidarietà nelle Stazioni italiane, da quando ha 18 anni lavora come volontario nelle stazioni e oggi si occupa degli help center in alcune grandi stazioni italiane. «Le istituzioni di solito finanziano il necessario: le docce, i posti letto, il cibo», ci spiega. «La persona quando viene da te però ha altro dietro. Non è solo il piatto di pasta che serve, ma tutto il resto: non è il piatto di pasta che ti aiuta a rientrare nella dignità». Nelle città come Roma non si muore di fame. «Ma si può morire di solitudine, di mancanza di relazione», spiega Radicchi.
«Oggi viviamo la difficoltà a convincere la persona a farsi aiutare: io lavoro vicino alla stazione e sotto il mio ufficio c’è una persona senza dimora. In tanti mi chiedono: perché non la aiuti? Rispondo che la stiamo conoscendo, e cercheremo di fare sì che accetti l’aiuto». Un discorso molto vicino a quello sull’emporio: anche le stazioni sono un osservatorio su una fetta di povertà.
«La stazione è una comunità, si ritrova quell’ambiente di relazione che per molti è andato perduto» spiega Radicchi.
« C’è l’abitudinarietà, un ritmo delle cose che dà sicurezza: il treno che passa, i volti che vedi danno un clima di casa. Tutte cose che noi abbiamo e certe persone possono ritrovare nella stazione».
Anche un help center può diventare importante per un welfare dell’aggancio. «Una soluzione possibile è mettere insieme il privato, il terzo settore e l’istituzione, cioè le autorità locali» spiega Radicchi. «Fare in modo che quando cadi ci sia una rete di resilienza sociale. Attraverso gli help center la stazione da luogo di passaggio fugace diventa uno spazio di aiuto». «La povertà è di tutti» riflette Federica Severini. «Chi si prende la responsabilità di aiutare? Chi si prende in carico queste persone? Il lavoro da fare è mettere insieme la maggior parte dei soggetti. Tutti questi soggetti – le aziende, i servizi – non si parlano. Abbiamo iniziato a parlarci noi».